La storia degli ebrei italiani nell’Ottocento è caratterizzata da tendenze simili, ma anche da specificità legate alle antiche zone di insediamento, come ad esempio le città di porto, le corti rinascimentali, le capitali degli antichi Stati italiani o i borghi delle zone rurali. Dalla fine del Settecento e per tutto il corso dell’Ottocento, le vicende ebraiche nella Penisola risentono dei radicali cambiamenti che portano al processo di unificazione del paese e alla modernizzazione delle strutture socio-economiche e delle istituzioni dello Stato nazionale. In termini molto generali, la storia degli ebrei in Italia e quella relativa ai loro insediamenti non è una storia lineare, ma è condizionata e articolata dalle grandi differenze fra gli antichi Stati italiani e fra le loro culture politiche, che inevitabilmente si riflettono sulle piccole, ma importanti, comunità ebraiche locali.
Nel corso dell’Ottocento le città italiane vedono flussi migratori ebraici di esclusiva provenienza italiana, dovuti ai processi di inurbamento che determinano la scomparsa delle piccole comunità ebraiche delle zone rurali emiliano-romagnole, toscane, venete e dell’Italia centrale. Ferrara, come altre città di dimensioni più consistenti e di rilevanza economica maggiore (ad esempio Torino, Milano, Firenze e l’asburgica Trieste) vede l’afflusso di ebrei provenienti dalle piccole comunità ebraiche limitrofe, come il caso della storica comunità di Cento. Flussi migratori ebraici provenienti dall’estero, circoscritti ma culturalmente pregnanti, sarebbero comparsi invece solo nel corso del Novecento, a Ferrara come in altre città italiane.
I processi di modernizzazione che investono il paese nel corso dell’Ottocento e che si riflettono sulla minoranza ebraica sono, nel caso di Ferrara, molto significativi e meritano di essere brevemente descritti. Ferrara sembra presentarsi come una città in cui una componente della minoranza ebraica opera economicamente soprattutto nella gestione degli appalti. Il dinamismo economico degli ebrei ferraresi nel corso del Settecento si colloca in un contesto socio-religioso piuttosto differente rispetto a quello toscano o di area veneta, poiché direttamente controllato dagli ambienti, non sempre illuminati, dello Stato pontificio. Tuttavia, modernizzante o meno, questa nuova élite ebraica, ostacolata dall’emergente borghesia cristiana, si ritrova attivamente coinvolta nelle vicende del periodo giacobino, che portano in Italia una radicale ventata di novità politica. Per gli ebrei il periodo francese ebbe notevoli ripercussioni nell’organizzazione della vita associata della tradizionale “università ebraica”: l’atto simbolico per eccellenza è senza dubbio l’abbattimento delle mura dei ghetti, avvenuto, non senza resistenze e conflitti, in tutte le città sotto il dominio francese.
Negli anni del periodo giacobino alcuni scritti a favore degli ebrei vengono contrastati da pubblicazioni contro la loro emancipazione, in genere di matrice cattolica: allo scritto anonimo del 1796 L’amico della ragione venne opposto L’araldo cattolico e poi una seconda risposta di area illuminista, L’amatore della verità risorta. Questa dialettica, lungi dal caratterizzarsi come dato unico o speciale, è strutturalmente ricorrente, soprattutto nelle zone dove si era meno diffuso il dibattito settecentesco sulla tolleranza religiosa, e si intreccia con un’ostilità di carattere popolare che attende ancora di essere studiata, tenuta sotto controllo dai francesi, come lo era stata in precedenza anche dal potere governativo di “antico regime”. Non è un caso che proprio in concomitanza di grandi cambiamenti politici, nelle occasioni cerimoniali e rituali più significative, il conflitto e la violenza nei confronti degli ebrei si ripropongano con rinnovato vigore. A Ferrara un caso emblematico è quello occasionato dalla cerimonia religiosa tenutasi in Duomo per sancire la proclamazione della Repubblica cisalpina, che produce una serie di tumulti cittadini e un violento assalto al ghetto.
È proprio attorno agli spazi specificamente ebraici – ghetto e cimiteri – che si dipanano le vicende del mondo ebraico ferrarese ottocentesco. In questi luoghi si possono registrare i cambiamenti lenti, ma significativi, di sensibilità nei confronti degli ebrei, una presenza radicata nel tessuto urbano della città, ma percepita anche come scomoda e aliena. E non è un caso se i pilastri del ghetto, distrutti e ricostruiti diverse volte dall’occupazione francese in poi, nel 1848 sono divelti con l’attiva partecipazione della popolazione cristiana, segno di una mutazione di sensibilità culturale e politica nei confronti dell’ebraismo.
Il 1848 può a buon titolo considerarsi come momento periodizzante per l’élite più politicizzata degli ebrei italiani, il cui coinvolgimento nei moti rivoluzionari è ampiamente attestato per ogni città europea. In questo periodo, tra le presenze eminenti e attive della comunità ebraica ferrarese, emerge la figura di Salvatore Anau, membro della élite economica, possidente terriero, attivo patriota e giornalista militante, amico di Tommaseo e impegnato nel dialogo con gli ambienti più illuminati del cattolicesimo italiano. Autore di un pamphlet scaturito dal suo contatto epistolare con l’abate Lambruschini, Della emancipazione degli ebrei, Anau è rappresentativo di una corrente del mondo ebraico che si adopera attivamente per il miglioramento delle condizioni delle classi sociali meno abbienti. Assieme a Leone Carpi, viene eletto alla Costituente Romana e dopo il fallimento dei moti del ’48 prende le vie dell’esilio. Sia Anau che Carpi si contraddistinguono per l’attività politica, giornalistica e di più ampia riforma economica, la quale trova infine migliore espressione solo dopo l’avvenuta unità d’Italia. In questo periodo si stampano diversi testi relativi alla emancipazione degli ebrei. A Ferrara appare Una questione israelitica dell’avvocato Luigi Borsari, non priva però di quella tipica ostilità contro il Talmud, il testo rabbinico per eccellenza, destinato a diventare il fuoco della polemica antisemita, sia di matrice cattolica che liberale, nei decenni successivi.
Dopo il fallimento dei moti del ’48, la mobilità ebraica nella penisola italiana si arricchisce di nuovi elementi. Non solo studenti, rabbini, insegnanti, medici, commercianti e nuovi imprenditori si muovono entro il reticolo degli insediamenti ebraici italiani, ma anche giovani rivoluzionari, educati alla cultura delle libertà e della democrazia. L’ostilità antiebraica si cristallizza nel corso degli anni, soprattutto dopo la radicale virata di Pio IX nel 1849. Ripristinate le interdizioni e banditi gli ebrei della élite cittadina e dalle istituzioni più prestigiose della città, termina anche la fase di una inedita alleanza ebraico-cattolica. Nel corso della prima metà del secolo, gli ebrei ferraresi, come quelli delle altre città italiane, avevano continuato a prodigarsi per dimostrare la loro “utilità” nell’attività politica, scientifica, economica. Non pochi furono i contatti con paesi stranieri dove alcuni giovani ebrei andavano in cerca di fortuna: ma il legame con la città è ben testimoniato dal nuovo fenomeno del “dono civico”, come la copia del Corano donata da Elia Rossi alla Biblioteca o le collezioni lasciate al Museo di storia naturale da Angelo Castelbolognesi, di modesta formazione culturale ma animato da grande interesse per l’esplorazione geografica.
Gli anni Cinquanta si caratterizzano per la durezza, mitigata solo in parte dalle poche concessioni del governo pontificio: in realtà alla repressione politica, alle espulsioni e incarcerazioni di membri della coalizione liberale si aggiungono la crisi agraria e il colera. I poveri a carico della comunità ebraica devono essere molti, come del resto per tante altre città italiane, se la documentazione attesta una particolare attenzione ad alleviarne le sofferenze e lo stato di indigenza.
Il primo Ottocento può ben essere descritto, nonostante i momenti brevissimi di equiparazione civica, ancora nei termini culturali tipici dell’antico regime: la vita degli ebrei ruota attorno alla comunità, il centro è ancora il ghetto, con i suoi eroi della scienza ebraica, ma anche i nuovi attivisti politici. La memoria della comunità si espande nelle peregrinazioni e nei successi culturali raggiunti da coloro che, nati a Ferrara, hanno guadagnato il successo come medici o come studiosi oltre le mura cittadine, in Egitto come nell’Impero asburgico. Nessuno di loro è dimenticato, e questo legame con la comunità locale costituisce una delle forme della memoria culturale dell’ebraismo ferrarese ottocentesco.
Con l’Unità d’Italia si compie quel faticoso e lento processo di integrazione, dapprima economica, poi culturale e infine politica, attestata da una attivissima militanza nelle file patriottiche di un numero discreto di ebrei. Negli anni Settanta comincia a registrarsi anche un cambio generazionale – noti patrioti come Salvatore Anau muoiono, portando con sé una vita di speranza e lotte che saranno destinate a ripresentarsi per gli ebrei ferraresi nei decenni futuri, soprattutto nel corso del primo Novecento, come ad esempio il caso di Renzo Bonfiglioli, il ricco e colto antifascista che nel dopoguerra sarebbe asceso ai vertici delle organizzazioni ebraiche italiane e al quale si deve un’inestimabile collezione bibliografica purtroppo perduta. Altre figure assumono un ruolo importante sulla scena politica locale e nazionale, come ad esempio Amilcare Zamorani, un avvocato ferrarese che dal 1886 fa del «Resto del Carlino» di Bologna un quotidiano nazionale e di impronta democratica, o come Enea Cavalieri, futuro presidente del Consiglio provinciale e della federazione nazionale dei consorzi agrari. Proveniente da una ricca famiglia ferrarese di banchieri e possidenti terrieri, dopo la laurea a Pisa, si reca in Sicilia, insieme a Franchetti e Sonnino, per la celebre inchiesta degli anni Settanta. Politico, giornalista e intellettuale militante, filantropo e sostenitore di politiche riformatrici social-liberali in campo igienico, agricolo e cooperativo, Cavalieri si colloca nel solco della politica inaugurata da un altro eminente ebreo, Luigi Luzzatti.
Dopo l’Unità, in base ai censimenti del 1861 e del 1871, la comunità ebraica ferrarese si attesta, dal punto di vista demografico, sulle 1.550 unità, mentre rilevazioni più generiche danno la comunità attorno alle 2.000 anime nella prima metà dell’Ottocento. Particolarmente bassi sembrano, intorno agli ultimi decenni dell’Ottocento, i tassi relativi ai matrimoni misti, indicatori in genere di modernizzazione e, dal punto di vista religioso più conservatore, “assimilazione”, ossia scomparsa della specificità culturale ebraica. È questo profilo a riflettersi negli strali dell’antiebraica «Civiltà cattolica», che a fine secolo avrebbe identificato nel Veneto e nel Ferrarese la “Giudea italica”.
Da un punto di vista religioso, la comunità ebraica di Ferrara si distingue per la sua imponente produttività culturale sin dalla prima età moderna. Nel corso dell’Ottocento essa si caratterizza per la sua capacità di porsi come ponte di connessione con l’Alliance israélite universelle, una organizzazione ebraica internazionale, fondata a Parigi nel 1860 da Adolphe Crémieux e dedita alla protezione e promozione dei diritti civili degli ebrei. A Ferrara la comunità ospita nel 1863 un primo congresso ebraico nazionale, i cui obiettivi, del tutto disattesi, sono indirizzati ad uniformare e unire tutte le comunità ebraiche del Regno d’Italia. Il congresso registra fin da subito le diverse anime dell’ebraismo italiano ed evidenzia soprattutto una serie di conflitti, indicativi non solo della diversità delle comunità ebraiche italiane, ma anche dei problemi connessi al processo di emancipazione. Ferrara appare, in confronto alle altre città italiane, più conservatrice e ortodossa, un dato questo che deve essere approfondito anche alla luce delle vicende successive, che si protraggono fino alla prima metà del Novecento. A caratterizzare questo conservatorismo, che influisce anche sul particolare fascino dell’ebraismo ferrarese, è forse la natura provinciale e agraria della città, la conservazione delle istituzioni religiose di antico regime, che – se pur modernizzate soprattutto a livello educativo – non vedono quelle trasformazioni, anche di carattere urbanistico, avvenute in altre città italiane: nessuna grande e imponente sinagoga viene costruita a Ferrara sul modello di Torino, Firenze, Trieste o Modena.
La vita ebraica ferrarese è fortemente segnata da processi di differenziazione di classe – l’emergente borghesia che lentamente si insedia al di fuori del perimetro del ghetto – nonché dall’adesione alle lealtà di corporazione professionale e dalle diverse passioni politiche. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento un aspetto culturale significativo del mondo ebraico occidentale è la piena adesione agli ideali dell’età positivista, con la celebrazione della scienza e dell’agnosticismo.
CF, 2011
Bibliografia
Abramo Pesaro, Memorie storiche sulla comunità israelitica ferrarese, rist. anast. dell’ed. 1778-1880, Bologna, Forni, 1986; Eugenio Righini, Antisemitismo e semitismo nell’Italia politica moderna, Milano-Palermo, Sandron, 1901; Werther Angelini, Gli ebrei di Ferrara nel Settecento, Urbino, Argalia, 1973; Gli ebrei in Italia, a cura di Corrado Vivanti, in Storia d’Italia, Annali 11, Torino, Einaudi, 1996-1997; Matteo Provasi, Ferrara ebraica. Una città nella città, Ferrara, 2G, 2010.