Disoccupazione

Prima della trasformazione capitalistica della produzione agricola e industriale, che generalizzò il salariato e ampliò la popolazione dipendente dal mercato del lavoro, l’inattività era impensabile: doveva giustificarsi con una qualche forma di inabilità o, moralisticamente, con la pigrizia o la criminalità. Non a caso dal Seicento in avanti la soluzione al “pauperismo”, cioè all’immigrazione in città di masse di campagnoli immiseriti, fu la carità per quelli giudicati realmente bisognosi e il lavoro coatto per gli altri. “Case di lavoro”, come le famigerate workhouses inglesi, funzionavano ancora agli inizi del XIX secolo. Ma come spiegare l’esistenza di lavoratori poveri in tempi non di carestia e ristagno, bensì di rigoglioso sviluppo economico? L’inquietudine per la “questione sociale” che, sulla scorta dell’esempio inglese e francese, si diffuse alla metà del XIX secolo segnalava non solo le paure delle classi dirigenti, ma anche la percezione di un mutamento: il nuovo mondo industriale moltiplicava prodotti e ricchezze, ma impoveriva i produttori, non solo comprimendo i loro salari, ma soprattutto espellendoli periodicamente dalle loro occupazioni. L’aggettivo che accompagnò, anche in Italia, l’imporsi del termine “disoccupazione” a fine secolo segnalava questa novità: “involontaria”, cioè subita da soggetti che avrebbero voluto lavorare, perché la loro sussistenza dipendeva dal salario.

I braccianti della pianura padana giocarono un ruolo determinante nella “nascita” della disoccupazione. Anche per i giornalieri ferraresi la mancanza cronica di impieghi era un problema di lunga data, aggravatosi però negli anni della crisi agraria. Questa situazione nutrì i movimenti del 1897 e 1901 e spinse poi la Federbraccianti a cercare di limitare la concorrenza fra i lavoratori. All’indomani dei grandi scioperi, l’ex-maestro copparese Carlo Zanzi redasse un opuscolo dando conto di un’inchiesta delle leghe copparesi sulla condizione bracciantile locale. Attribuiva alla logica del profitto privato e all’anarchia della produzione capitalistica la responsabilità dell’“ozio forzato” dei lavoratori, elencava le occasioni concrete per impiegarli ed ovviare a “bisogni sociali non soddisfatti”, ma invitava anche ad organizzarsi per esercitare una “pressione” di massa. La rivolta bracciantile costrinse a prendere atto di un’inedita sovrabbondanza della forza-lavoro rurale, determinata dalla crescita demografica e dalla crisi delle occupazioni complementari (soprattutto lavori pubblici), ma anche dalla razionalizzazione produttiva e dalla rappresaglia padronale: se prima si era trattato di un fenomeno legato ai ritmi stagionali dell’attività agricola, ora si registravano disoccupati anche nei mesi di lavoro più intenso. Un’inchiesta della Società Umanitaria rivelò nel 1904 che nei mesi invernali erano disoccupati circa 3.000 braccianti a Portomaggiore e a Bondeno, 4-5.000 ad Argenta, 8-9.000 a Copparo: in questi quattro popolosi Comuni erano dunque 21.000 i braccianti senza lavoro a gennaio, ma a luglio erano ancora 5.000. Lo stesso Niccolini pose nel 1907 la “disoccupazione” fra i sottotitoli del suo importante studio sulla “questione agraria” nel Ferrarese. Questa situazione fa comprendere perché le leghe lottassero per controllare direttamente il mercato del lavoro: non solo per scongiurare l’emarginazione dei militanti, ma anche per redistribuire equamente le giornate di lavoro disponibili all’interno della comunità.

 

La redazione, 2012

 

Bibliografia

Carlo Zanzi, Disoccupazione, [Copparo], Federazione mandamentale fra le leghe contadine del copparese [1902]; La disoccupazione nel Basso emiliano, Milano, Società Umanitaria, 1904; Maria Grazia Meriggi, La disoccupazione come problema sociale. Riformismo, conflitto edemocrazia industrialeprima e dopo la Grande guerra, Milano, Angeli, 2009.

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