Ilaria Pavan

Ilaria Pavan

Ilaria Pavan è ricercatrice di storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Si è occupata di storia dell'ebraismo italiano e delle persecuzioni antisemite fasciste. Tra le sue pubblicazioni: con Francesca Pelini, La doppia epurazione. L'università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2009; Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, Roma-Bari, Laterza, 2006; Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia (1938-1970), Firenze, Le Monnier, 2004; con Guri Schwarz ha curato il volume Gli ebrei in Italia tra persecuzione e reintegrazione postbellica, Firenze, Giuntina, 2001.

Mercoledì, 23 Novembre 2011 17:09

Amministrazione locale

Nel 1802, con il definitivo insediamento del potere napoleonico in Italia, gli ordinamenti locali – il cui particolarismo era sopravvissuto anche alle prime esperienze repubblicano–democratiche del Triennio – subirono radicali modifiche in direzione di un’organizzazione uniforme e accentratrice che lasciava poco spazio alla libera autonomia dei Comuni o del voto popolare. Come altrove, anche nel Ferrarese la struttura amministrativa in cui era stato suddiviso il territorio negli anni della Repubblica Cisalpina, il Dipartimento, perse il suo carattere di Circoscrizione provinciale a sé stante, vivente di vita propria, come ai tempi della Cisalpina, per assumere le vesti e le funzioni di una Circoscrizione del governo; anche il Dipartimento del Basso Po perse così parte dell’autonomia che l’aveva caratterizzato negli anni 1796-1799, divenendo un organo sotto il costante controllo del potere centrale. Rispetto agli anni della Cisalpina, l’organizzazione del potere locale fu riformata con il decreto del vice presidente della Repubblica Italiana Francesco Melzi d’Eril del 16 maggio del 1802 che introduceva anche in Italia, sul modello francese, la figura del prefetto di nomina governativa posto a capo dei Dipartimenti e dotato di amplissimi poteri. Successivamente, in senso ulteriormente autoritario e centralistico, intervenne il decreto napoleonico dell’8 giugno 1805 che sancì, tra le altre cose, la nomina regia di tutti i funzionari. Il territorio continuò ad essere suddiviso, dal punto di vista amministrativo, in Dipartimenti (sottoposti all’autorità del prefetto), Distretti (guidati da un vice prefetto), Cantoni (con alla testa un giudice di pace) e Comuni (guidati da un podestà), ma per la prima volta, con il decreto del 1805, fu data all’amministrazione del territorio una completa uniformità di leggi ordinamenti, strutture. Il Dipartimento ferrarese del Basso Po, che secondo il censimento del 1810 contava una popolazione di 257.534 unità, fu quindi organizzato nei 3 Distretti di Ferrara, Comacchio e Rovigo, in 12 Cantoni (ben 6 nel solo distretto ferrarese) e in 103 Comuni. Alla sola Ferrara spettava il rango di Comune di prima classe, ovvero con più di 10.000 abitanti; 8 erano i Comuni di seconda classe, mentre nettamente prevalenti, ben 94 (il 91%) erano i Comuni di terza classe, un dato che evidenzia il carattere spiccatamente rurale della popolazione del dipartimento ferrarese.

Restaurato il potere pontificio, il 15 luglio 1815 il segretario di Stato cardinal Ercole Consalvi, emanava l’editto che istitutiva un governo provvisorio per le Province, come Ferrara, cosiddette di “seconda ricupera” e stabiliva il nuovo ordinamento amministrativo cui tali Province sarebbero state sottoposte. Il governo era affidato a congregazioni residenti nei capoluoghi delle rispettive Province, ognuna delle quali composta da un prelato, che la presiedeva, coadiuvato da quattro membri e da un assessore, aventi però voto puramente consultivo. Se il sistema giuridico francese veniva cancellato, l’impianto complessivo dato dal regime napoleonico all’organizzazione territoriale-amministrativa del Regno d’Italia, caratterizzato da un marcato centralismo, veniva di fatto conservato nelle sue linee essenziali. Questa generale opera di riorganizzazione trovò la sua formulazione legislativa nel motuproprio del 6 luglio 1816 che rappresentò l’unificazione legislativa ed amministrativa dello Stato pontificio, organizzato in 17 Delegazioni di tre classi diverse; quelle di prima classe, come Ferrara, erano rette da un cardinale e denominate Legazioni. Ogni Delegazione era suddivisa in Governi – 11 nella Provincia di Ferrara – e ogni governo in Comuni – 48 nel caso ferrarese. I governatori, che come i delegati erano di nomina esclusivamente romana, esercitavano le proprie attribuzioni sotto il controllo dei delegati, ma a differenza di questi ultimi non dovevano essere obbligatoriamente degli ecclesiastici. Al delegato, figura paragonabile a quella del prefetto napoleonico, era affidata la direzione e la sorveglianza «di tutti gli atti di governo e di pubblica amministrazione». Numerose le norme che riguardavano l’amministrazione delle comunità minori. In ogni Comune era istituito un Consiglio – la cui nomina era riservata al delegato – all’interno del quale potevano sedere solo proprietari terrieri, commercianti e «uomini di lettere» ­– e una magistratura, che rappresentava l’organo esecutivo del Comune, retta da un gonfaloniere e da sei anziani, tutti nominati dal delegato. La stretta intransigente portata avanti da Leone XII portò il 5 ottobre del 1824 ad un nuovo motuproprio riguardante la struttura amministrativa dello Stato. Le più significative modifiche riguardavano la composizione dei Consigli comunali: la carica di consigliere diveniva ereditaria, si mirava a creare in ogni comunità una casta chiusa cui fosse affidata in maniera definitiva l’amministrazione locale. Con questa organizzazione amministrativa lo Stato pontificio, superato il travagliato biennio 1848-1849, sarebbe giunto sino al suo definitivo crollo nel settembre del 1859.

Al momento dell’unificazione, il nuovo Stato faceva propria nella sua struttura amministrativa complessiva gran parte dell’eredità napoleonica che in filigrana – seppur con cambiamenti di rilievo – era stata mantenuta anche negli anni della restaurazione pontificia. Con la legge n. 2248 del 20 marzo 1865 fu disegnato l’ordinamento provinciale e comunale del nuovo Regno, organizzato in Province, Circondari, Mandamenti e Comuni. La provincia di Ferrara fu suddivisa in 3 circondari (Ferrara, Cento e Comacchio), 8 Mandamenti (Argenta, Copparo, Portomaggiore, Bondeno, Poggio Renatico, Crevalcore, Finale, Codigoro) e 16 Comuni (Cento, Poggio Renatico, Sant’Agostino – che comprendeva Mirabello –, Comacchio, Lagosanto, Massa Fiscaglia, Mesola – che comprendeva Goro –, Migliarino – che comprendeva Migliaro –, Argenta, Bondeno, Copparo – che comprendeva Berra e Jolanda di Savoia –, Ferrara – che comprendeva Vigarano Mainarda –, Formignana – che comprendeva Tresigallo –, Ostellato, Portomaggiore – che comprendeva Masi Torello e Voghiera –, Ro).

A capo della provincia era posto il prefetto, di nomina ministeriale, coadiuvato da un Consiglio di prefettura composto da tre funzionari, mentre un vice prefetto era alla guida dei Circondari. In ogni Comune i cittadini con diritto di voto eleggevano il Consiglio comunale con un numero di consiglieri rapportato alla popolazione (40 nel caso di Ferrara) e che eleggeva nel suo seno i membri della giunta municipale. Il sindaco, in carica per tre anni, era nominato dal re, su proposta del prefetto, e scelto tra i consiglieri comunali. La legge istituiva inoltre il Consiglio provinciale e la Deputazione provinciale. Quest’ultima rappresentava l’organo esecutivo della Provincia (e deputati provinciali erano detti i suoi membri) ed era investita anche di funzioni di controllo sulle amministrazioni comunali. La Deputazione provinciale era eletta dal Consiglio provinciale, ma presieduta e convocata dal prefetto coadiuvato da un numero di consiglieri provinciali variabile a seconda della popolazione della provincia, 6 nel caso ferrarese. Quanto al Consiglio provinciale, esso rappresentava, con quello comunale, l’altro organo elettivo dell’amministrazione locale (l’elezione dei due organi avveniva con le stesse regole elettorali e nella medesima tornata). Considerando l’intero periodo 1860-1914, la situazione ferrarese ben esemplifica il ruolo di cinghia di trasmissione tra i circuiti politici locali e quelli nazionali – e di sovrapposizione tra gli stessi – che quest’organo rappresentava, se si pensa che sui 241 consiglieri provinciali eletti nel cinquantennio considerato, ben 24 risultarono anche eletti alla Camera o nominati al Senato, quali, solo per nominarne alcuni, Giorgio Turbiglio, Severino Sani, Giovanni Gattelli, Elio Melli, Stefano Gatti Casazza.

Le riforme amministrative introdotte nel periodo crispino, in particolare la legge 30 dicembre 1888 n. 5865 e il successivo T.U. del 10 febbraio 1889, introdussero alcuni significativi cambiamenti nell’assetto dell’amministrazione locale: la tutela, ossia il controllo di merito sugli atti delle amministrazioni locali, fu trasferito dalla Deputazione provinciale a un organo di nuova istituzione, la Giunta provinciale amministrativa, presieduta dal prefetto e composta da due consiglieri di prefettura e da quattro membri effettivi eletti dal Consiglio provinciale. Le riforme crispine condussero inoltre all’elettività dei presidenti delle Deputazioni provinciali e dei sindaci dei capoluoghi di Provincia o di Circondario che avessero popolazione superiore ai 10.000 abitanti (elettività estesa ai sindaci di tutti i Comuni con la legge del 22 luglio 1896 n. 346).

L’elettorato amministrativo previsto inizialmente dalla legge del 1865 era basato su un criterio misto di censo e capacità: era riconosciuto ai maschi di 21 anni che godessero dei diritti civili e pagassero da almeno sei mesi, nel Comune di residenza, un contributo diretto che variava a seconda della popolazione, nonché a professori universitari e maestri autorizzati ad insegnare nelle scuole pubbliche, membri delle Accademie, procuratori, notai, ragionieri, liquidatori, geometri, farmacisti, veterinari, sensali e agenti di cambio. Sino alla riforma elettorale del 1882, e considerando il dato aggregato a livello nazionale, tali criteri resero in media gli elettori amministrativi il doppio di quelli politici. Le riforme crispine sopra citate introdussero per l’elettorato amministrativo un nuovo sistema nel quale la capacità prevalse sul censo, portando nuovamente ad un sorpasso nel numero degli elettori amministravi rispetto a quelli politici. Nella provincia di Ferrara, alle elezioni amministrative generali del 1889, gli elettori politici erano 19.230 mentre quelli amministrativi erano 22.081, la maggior parte dei quali, il 55%, godeva del diritto di voto per capacità. Quanto al profilo socio-economico dei consiglieri comunali e provinciali, per tutto il primo quarantennio postunitario, all’interno dei due organi prevalse nettamente la componente legata alle classe genericamente definibile dei possidenti. Nel 1891, ad esempio, sui 415 consiglieri comunali eletti in tutti i 16 Comuni della provincia di Ferrara, 219 (il 53%) risultavano «proprietari, capitalisti, benestanti», 29 «avvocati, procuratori o dottori in legge», 22 «professori, maestri, dottori in lettere, pubblicisti», 15 «impiegati privati», 10 «fattori ed agenti di campagna». Specchio della componente legata alla proprietà fondiaria era anche la composizione dell’organo provinciale, tra i cui 40 membri, nel 1889, il 47,1% era composto da possidenti. Tale situazione sarebbe mutata solo successivamente all’introduzione del suffragio universale del 1912.

IP, 2011

Bibliografia

Carlo Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino, Utet, 1886; Elio Lodolini, L’amministrazione periferica e locale nello Stato pontificio dopo la Restaurazione, «Ferrara viva», 1, 1959, pp. 5- 32; Aurelio Alaimo, La città assediata. Amministrazione comunale e finanze locali a Ferrara all’inizio del secolo (1900-1915), in Il governo della città nell’età giolittiana, a cura di Cesare Mozzarelli, Trento, Reverdito, 1992; Luigi Davide Mantovani, Amministrazione ed elezioni comunali a Comacchio (1860-1919), in Storia di Comacchio, a cura di Aldo Berselli, vol. I, Ferrara, Este Edition 2002, pp. 333-410; Michele Nani, Per un profilo del consiglio provinciale: appunti sul secondo Ottocento (1860-1914), in Terra di Provincia, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Amministrazione provinciale di Ferrara, 2003.

 

 

Lunedì, 19 Settembre 2011 20:46

Stato in periferia

Con il trattato di Tolentino del 19 febbraio 1797, lo Stato della Chiesa cedeva ai francesi il controllo del territorio di Ferrara, in conseguenza delle vittorie napoleoniche nella prima campagna d’Italia della primavera del 1796. Ferrara entrava così a far parte della neonata e filo-francese Repubblica Cispadana, proclamata a Reggio Emilia il 5 gennaio 1797. Nel luglio successivo questa venne unita con la vicina Repubblica Transpadana e le due entità formarono la Repubblica Cisalpina, con capitale Milano, denominata in seguito Repubblica italiana (gennaio 1802 - marzo 1805) e quindi Regno d’Italia (marzo 1805 - aprile 1814).

L’organizzazione amministrativa imposta dai francesi sui territori italiani controllati ricalcò il modello transalpino: in periferia lo Stato veniva ripartito in Dipartimenti, Distretti, Cantoni (a soli fini elettorali) e Comuni. Il territorio ferrarese andò così a costituire il Dipartimento del Basso Po, istituito il 29 marzo 1797 e suddiviso inizialmente in 16 Cantoni. I confini del Dipartimento ferrarese furono instabili: negli anni del Regno d’Italia alcuni Comuni entrarono nel vicino Dipartimento del Mincio, mentre Ferrara acquisì gli attuai territori della provincia di Rovigo, altri furono invece ceduti al Dipartimento dell'Adriatico. Sino alla proclamazione della Repubblica Italiana il Dipartimento era retto dalle cosiddette amministrazioni centrali, composte da cinque membri (successivamente ridotti a tre), rinnovati in parte ogni anno ed eletti dalle assemblee elettorali, a loro volta composte da cittadini scelti sulla base di criteri censitari. A controllare l’operato delle amministrazioni centrali erano posti dei commissari governativi, o commissari del potere esecutivo, nominati dal Direttorio della Cisalpina. Il primo commissario governativo del dipartimento fu l’avvocato ferrarese Giovanni Battista Boldrini, che ricoprì la carica dall’agosto 1797 all’aprile 1799.

Rispetto all’assetto assunto durante gli anni della Repubblica Cisalpina, l’organizzazione amministrativa fu riformata con la promulgazione del decreto vicepresidenziale del 6 maggio 1802, che introduceva ufficialmente anche in Italia, sul modello francese, la figura del prefetto, di nomina governativa, a capo dei Dipartimenti. Con l’istituzione della Prefettura arrivava a compimento quel processo tendente a creare un sistema amministrativo periferico fortemente collegato al centro e sempre più sottratto all’autorità e al controllo delle forze locali. Cinque furono i prefetti che diressero il Dipartimento ferrarese negli anni napoleonici, nessuno di loro nativo della città: Teodoro Somenzari (1802); Pio Magenta (1802-1803); Federico Cavriani (1803-1807); Giovanni Scopoli (1807-1808) e Costantino Zacco (1808-1814). A fianco del prefetto rimase, sino al 1805, l’amministrazione dipartimentale, un istituto che, presente già durante gli anni della Cisalpina – col nome di amministrazione centrale – privava il prefetto dell’esclusività nella gestione amministrativa. Composto, nel caso del Dipartimento del Basso Po, di cinque membri nominati dal governo su una lista doppia di individui proposti dal Consiglio di Prefettura, l’amministrazione dipartimentale gestiva prevalentemente il riparto delle imposte tra i Comuni e ad esso era sottoposto il controllo delle opere pubbliche.

Con la legge del 24 luglio 1802 venne poi completata la sistemazione dell'apparato periferico; si procedette infatti anche alla riorganizzazione dei Comuni, introducendo la distinzione in tre classi definite in base alla consistenza della popolazione. L’organizzazione amministrativa periferica del Regno d’Italia fu ulteriormente modificata con il decreto dell’8 giugno 1805, che apportò cambiamenti soprattutto per quanto riguarda le nomine, che furono tutte accentrate nelle mani del sovrano, fatta eccezione per quelle degli organi dei Comuni di terza classe, ovvero con una popolazione inferiore a 3.000 abitanti, che rimanevano riservate ai prefetti. A questi ultimi, con poteri ulteriormente accresciuti – con il decreto dell’8 giugno 1805 il prefetto divenne infatti il responsabile unico dell’amministrazione dipartimentale – rimase affidata la guida dei dipartimenti, dove erano previsti un Consiglio di Prefettura e un Consiglio generale, organi che nella sostanza nulla potevano nei confronti del potere dei prefetti le cui mansioni erano amplissime, andando dal controllo delle imposte alla sorveglianza degli uffici di finanza, dalle provvidenze per il commercio alla polizia, dall’annona, alla sanità, alle opere pubbliche. Nei Distretti risiedeva invece il viceprefetto, assistito da un Consiglio distrettuale, mentre nei Cantoni doveva essere presente almeno un giudice di pace e, per le materie amministrative e censuarie, un consigliere del censo. Alla testa delle amministrazioni comunali vennero infine introdotte la figura del podestà – nei Comuni di prima o seconda classe, ovvero con popolazione maggiore, rispettivamente, ai 10.000 o ai 3.000 abitanti – e quella del sindaco, nei Comuni di terza classe. L’organo deliberativo del Comune rimase il Consiglio comunale. Nel 1808 la popolazione del Dipartimento ferrarese ammontava a 251.446 anime, di cui 27.032 nel Comune di Ferrara; al Distretto di Ferrara, comprensivo allora di cinque Cantoni, si affiancavano i Distretti di Comacchio, con tre Cantoni, e di Rovigo, con due Cantoni.

Con la Restaurazione il territorio ferrarese tornava a fare parte dello Stato pontificio. La riforma amministrativa introdotta con motu proprio da Pio VII nel luglio 1816 divideva lo Stato della Chiesa in 17 circoscrizioni amministrative, chiamate delegazioni apostoliche, ciascuna avente poteri esecutivi. Le Delegazioni assumevano il nome di Legazioni quando erano governate da un cardinale, come nel caso di Ferrara, che rappresentava una della cinque Delegazioni di prima classe in cui era diviso il territorio pontificio. A capo di ogni Legazione era posto un cardinale (legato) nominato dal papa tramite un provvedimento della Segreteria di Stato. Si ricordi, tra le altre, soprattutto la figura del cardinale Luigi Ciacchi, legato nei turbolenti mesi dal marzo 1847 al luglio del 1848 e successivo segretario di Stato di Pio IX. Il cardinale legato, che aveva compiti politici, amministrativi e giudiziari, era affiancato da due assessori, sempre di nomina papale, con funzioni ausiliarie di natura giudiziaria, l’uno in ambito civile, l’altro in ambito penale. A fianco del legato e degli assessori era inoltre prevista una Congregazione governativa con funzioni esecutive composta, nel caso delle Legazioni di prima classe, da quattro membri, due in rappresentanza del capoluogo e due in rappresentanza del circondario. In ogni Legazione l’amministrazione della giustizia era devoluta a un tribunale di prima istanza per le cause civili e a un tribunale criminale per le cause penali. La Legazione ferrarese era quindi amministrativamente suddivisa nei due Distretti di Ferrara e di Lugo e in undici governi locali. Espressione, in qualche modo, delle comunità locali rimase soltanto il Comune. In base al citato motu proprio di Pio VII gli organi del Comune erano il Consiglio – composto, nel caso del capoluogo di Legazione come Ferrara da 48 membri – e la Magistratura, rappresentata da un capo, col titolo di gonfaloniere e di sei, quattro o due anziani a seconda della grandezza del Comune. Consiglieri, gonfalonieri, anziani e sindaci erano tutti di nomina pontificia.

Il sistema delle Legazioni introdotto da Pio VII fu riformato da Pio IX nel novembre del 1850: le precedenti 17 Delegazioni vennero accorpate in sole quattro grandi Legazioni, cui si aggiungeva Roma e il suo circondario. Il territorio ferrarese confluì così nella cosiddetta Legazione della Romagna, o I Legazione, con capitale Bologna, che riunì le preesistenti Legazioni di Forlì, Ravenna, Bologna e Ferrara appunto. Nel 1858 il nome fu mutato in quello di Legazione delle Romagne, il cui territorio era amministrativamente suddiviso nelle quattro storiche Legazioni – ora “declassate” al rango di semplici Delegazioni – e a loro volta ripartite, come in precedenza, in Distretti – sempre due nel caso ferrarese, Ferrara e Lugo – e in governi locali, dieci nel caso ferrarese. Il nuovo assetto ebbe vita breve: la Legazione delle Romagne costituì infatti, con l’avvento del plebiscito di annessione al Regno di Sardegna del 10-11 marzo 1860, la prima grande perdita territoriale dello Stato pontificio in favore del nascente Regno d’Italia.

Il nuovo Stato italiano recepì nella propria organizzazione amministrativa le preesistenti quattro Legazioni pontificie che costituirono, di fatto, la base territoriale dei nuovi enti locali dell’Italia unita. Ferrara mantenne così il rango di provincia. L’articolazione territoriale e amministrativa successiva all’unificazione suddivideva il territorio in Province, Circondari, Mandamenti e Comuni. La Provincia di Ferrara risultò divisa nei Circondari di Ferrara, Cento e Comacchio, composti dai Mandamenti di Argenta, Copparo, Portomaggiore, Bondeno per il Circondario di Ferrara, di Poggio Renatico, Crevalcore e Finale per il Circondario di Cento, e nel Mandamento di Codigoro per il Circondario di Comacchio. Fulcro e simbolo della presenza del nuovo Stato unitario in periferia rimaneva il prefetto, configurandosi in questo senso una sostanziale continuità con gli ordinamenti e l’organizzazione amministrativa introdotta nel periodo napoleonico. I prefetti erano nominati e trasferiti con decreto reale, su deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata su proposta del ministro dell’Interno. La legge provinciale e comunale del 20 marzo 1865 investiva il prefetto del «potere esecutivo in tutta la provincia»: egli sorvegliava tutti i settori della pubblica amministrazione, poteva fare uso della polizia e richiedere l’intervento della forza. Sino alla riforma elettorale del 1882, la prefettura aveva anche il delicato compito della revisione delle liste elettorali e sotto la sua giurisdizione cadeva in buona parte la scelta del candidato sindaco. Il prefetto presiedeva inoltre la deputazione provinciale – organo che esercitava una funzione di controllo della finanza locale, attraverso l’approvazione dei bilanci preventivi e dei conti consuntivi dei Comuni –, presidenza che perse con la legge di riforma dell’amministrazione provinciale e comunale del febbraio 1889 per assumere quella della giunta provinciale amministrativa. Decisamente vivace la mobilità dei prefetti che si registrò in provincia di Ferrara: ben 25, infatti, furono i prefetti nominati a partire dal marzo del 1861 – l’avvocato modenese Luigi Zini fu il primo – e sino all’inizio del primo conflitto mondiale; nessuno di loro era nativo della città o della provincia. Spesso si trattava di funzionari provenienti da precedenti esperienze prefettizie e il loro mandato a Ferrara rappresentava solo un momento di transito, spesso limitato nel tempo, verso altre sedi del Regno.

IP, 2011

Bibliografia

Alberto Aquarone, La restaurazione nello Stato Pontificio ed i suoi indirizzi legislativi, Roma, Società romana di storia patria, 1957; Livio Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica: Repubblica e Regno d’Italia, Bologna, il Mulino, 1983; Mario Missori, Governi, alte cariche dello stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1989; Nico Randeraad, Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell’Italia liberale, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1997; Angela Ghinato, L’istituzione del Dipartimento del Basso Po. Storia, memoria e uomini, in Terra di Provincia. Uomini donne memorie figure, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Amministrazione provinciale di Ferrara, 2003, pp. 27-35; Alberto Aquarone, La Restaurazione nello Stato pontificio ed i suoi indirizzi legislativi in Id., Tra Restaurazione ed Unità. La politica legislativa degli Stati italiani. Saggi storico-giuridici, a cura di Sandro Notari, Roma, Luiss, 1994, pp. 3-72

Lunedì, 19 Settembre 2011 20:36

Elezioni politiche

Negli anni precedenti l’Unità, la due più significative occasioni elettorali cui la popolazione ferrarese fu chiamata a partecipare furono le votazioni per la Costituente della Repubblica Romana e i plebisciti per l’approvazione dell’annessione della Legazione ferrarese, ormai svincolatasi dal potere pontificio, al Piemonte sabaudo. Fu il 25 gennaio del 1849 che circa 30.000 cittadini ferraresi furono chiamati a scegliere i 14 deputati (sui 200 complessivi da eleggere) con cui il Collegio ferrarese partecipava alla designazione dei propri rappresentanti alla Costituente della Repubblica Romana; tra questi risulteranno eletti lo stesso Giuseppe Mazzini e il ferrarese Carlo Mayr, poi figura di spicco anche della prima stagione postunitaria e nel 1861 deputato nel primo Parlamento del Regno. Per la prima volta le elezioni si effettuarono a suffragio universale diretto maschile: tutti coloro che avevano compiuto 21 anni, risiedevano da almeno un anno nello Stato e godevano dei diritti civili erano elettori; eleggibili tutti i medesimi che avessero compiuto 25 anni. Al suffragio universale maschile si ricorse anche in occasione del plebiscito dell’11 marzo del 1860 con il quale Ferrara – e l’Emilia tutta – approvò l’annessione al Piemonte. Anche in quell’occasione furono ammessi al voto tutti i cittadini maschi che avessero 21 anni di età e che godessero dei diritti civili (le liste furono compilate generalmente sugli “stati delle anime” delle parrocchie) La partecipazione a Ferrara fu assai ampia: votarono infatti 48.999 persone sulle 49.220 aventi diritto. I voti favorevoli furono 48.778, appena 83 i contrari e 138 le schede nulle.

Con la proclamazione del Regno d’Italia i criteri per la partecipazione al voto, attivo e passivo, divennero assai restrittivi, conferendo alla rappresentanza politica dell’Italia liberale un carattere fortemente elitario. Le elezioni dei deputati del primo parlamento nazionale post-unitario – il Senato era di nomina regia – si svolsero il 27 gennaio del 1861. L’elettorato politico venne regolato dalla legge sarda del 17 marzo 1848, n. 680 e dalla legge del 17 dicembre 1860, n. 4513, che ne aveva esteso l’applicazione, con modifiche non sostanziali, ai territori annessi al regno sabaudo con i plebisciti dell’anno precedente. In conformità alla legge sarda, avevano diritto al voto i cittadini italiani maschi, di età non inferiore ai 25 anni, che sapessero leggere e scrivere e che pagassero un censo di imposte indirette non inferiore alle 40 lire. Al voto erano ammessi coloro che, anche non pagando l'imposta stabilita, rientravano in determinate categorie: magistrati, professori, ufficiali. Su una popolazione che contava allora circa ventidue milioni di abitanti, il diritto al voto era riconosciuto ad una élite assai ristretta, pari soltanto all’1,9% della popolazione complessiva. I 443 deputati (508 al momento del completamento dell’Unità nel 1870), distribuiti all’interno di un ugual numero di Collegi uninominali, erano eletti con sistema maggioritario a doppio turno. Si ricorreva al secondo turno quando nessuno dei candidati avesse ottenuto, al primo turno, più di un terzo dei voti rispetto al numero degli iscritti nel Collegio e più di della metà dei suffragi dati dai votanti, esclusi i voti nulli. Nel ballottaggio si votava per uno dei due candidati che avevano riportato più voti al primo turno; era eletto chi riportava la maggioranza semplice, senza altra condizione. Questa normativa elettorale rimase sostanzialmente inalterata per le sette legislature del Regno d'Italia (dalla VIII alla XIV) che si succedettero dal 1861 al 1882. Diversa era la normativa per le elezioni amministrative. Come altrove nel regno, anche per la provincia di Ferrara, il numero di elettori alle elezioni del 1861 risultò dunque assai modesto, appena 2.849 votanti, cui spettava la responsabilità di eleggere i quattro deputati che la provincia poteva designare, suddivisi in altrettanti Collegi uninominali: Ferrara I, Ferrara II, Cento e Comacchio. Alle successive elezioni del 1865 il numero di votanti risultò solo leggermente cresciuto, 3.837 elettori, dei quali il 44% aveva diritto di voto in base al censo, il 19,7% per titoli, il 7,0% in quanto rappresentanti del mondo delle arti, industria e commercio e il 28,5% risultava elettore sulla base dell’imposta di ricchezza mobile pagata. Nei primi anni postunitari, inoltre, alla ristrettezza della base elettorale si affiancò in tutta la penisola un diffuso astensionismo (nelle elezioni del 1861 solo il 57,2% degli elettori si recò alle urne, ma il dato sull’astensionismo rimase, in media, molto significativo almeno per il primo ventennio postunitario). La provincia di Ferrara non faceva, da questo punto di vista, alcuna eccezione, anzi la percentuale dei votanti si collocava ben al di sotto del già magro dato nazionale: i primi quattro deputati inviati al parlamento nell’inverno del 1861 – Francesco Borgatti, P. Conti, Carlo Mayr e Carlo Grillenzoni – furono infatti eletti rispettivamente con soli 259, 190, 277 e 210 consensi, un numero di preferenze che corrispondeva appena al 40,36% degli aventi diritto al voto. La loro provenienza – si trattava di candidati tutti ferraresi – e la loro estrazione sociale – due avvocati, Mayr e Borgatti; un militare di carriera, Conti; un nobile, il conte Grillenzoni – rispecchiavano a pieno la ristrettezza, il localismo e l’elitarismo della vita politica italiana negli anni immediatamente successivi all’Unità. Si trattò inoltre di deputati cosiddetti “ministeriali”, ovvero che in parlamento sostennero e appoggiarono sempre il governo in carica.

Il primo tentativo di ampliare la base elettorale si ebbe nel 1882. Nata da un progetto presentato da Benedetto Cairoli, presidente del Consiglio dal marzo 1878 ed esponente della sinistra storica, la nuova legislazione elettorale prevista dalla legge del 22 gennaio 1882, n. 999, ammise all'elettorato politico tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni e che avessero superato l'esame del corso elementare obbligatorio oppure pagassero una imposta annua diretta di lire 19,80. In tal modo si realizzò un primo allargamento del corpo elettorale che passò da circa 628.000 ad oltre 2.000.000 di elettori, cioè dall’1,9% al 6,9% della popolazione italiana, che contava allora 28.452.000 abitanti. Inoltre, la riforma sostituì il Collegio uninominale con quello plurinominale, modificando anche le circoscrizioni elettorali: il Regno venne infatti suddiviso in 135 Collegi in cui si eleggevano da due e fino a cinque rappresentanti, adottando lo scrutinio di lista. Lo scrutinio di lista era stato introdotto soprattutto per cercare di sottrarre il governo della nazione alla signoria dei piccoli interessi locali e personali. Ma l’esperimento non fu reputato nel complesso soddisfacente e fu abbandonato dopo meno di un decennio: con la legge del 5 maggio 1891, n. 210, si tornò infatti al precedente sistema di Collegi uninominali – 508, pari al numero di deputati complessivi da eleggere – con sistema a doppio turno. A Ferrara, nella breve parentesi rappresentata dall’esperimento del collegio plurinominale con scrutinio di lista, il marcato localismo che aveva caratterizzato la scelta dei candidati da inviare in parlamento sembrò interrompersi in modo solo parziale: sebbene sugli otto candidati eletti – e in alcuni casi rieletti – per la XV, XVI e XVII legislatura cinque non avessero origini ferraresi (Federico Seismit Doda, Severino Sani, Stefano Canzio, Giovanni Bovio, Giorgio Turbiglio), due di loro, Sani e Turbiglio erano certamente ben inseriti nell'architettura del potere locale (Turbiglio, ad esempio, originario di Cuneo ma ferrarese di adozione, per trent’anni fu docente di diritto penale presso l’ateneo cittadino). I tre restanti deputati eletti nelle tornate elettorali sopra citate (Giovanni Gattelli, Cesare Carpeggiani e Adolfo Cavalieri) provenivano invece dal capoluogo o dalla provincia. A prescindere dall’allargamento della base elettorale, ciò che non sembrava mutare era l’estrazione sociale dei candidati: nella maggior parte dei casi, infatti, si trattava ancora una volta di avvocati. In base alla riforma elettorale del 1882, il numero degli iscritti nelle liste elettori della provincia ferrarese registrò comunque un primo significativo incremento ammontando, nell’anno del varo della nuova normativa, a 15.374 elettori, dei quali il 29,7% aveva diritto al voto in base al censo e il 70,3% in base ai titoli. Sino alle elezioni del 1892 la circoscrizione elettorale ferrarese fu denominata “Collegio unico di Ferrara”; successivamente alla reintroduzione del sistema uninominale a doppio turno, i quattro deputati espressi dalla provincia tornarono a provenire da altrettanti, distinti, collegi. Agli “storici” Collegi di Ferrara, Cento e Comacchio si aggiunse, a partire dalle elezioni del 1892, il neo–istituito Collegio di Portomaggiore. Da segnalare, inoltre, che l’allargamento della base elettorale successiva alla riforma del 1882 portò in provincia di Ferrara ad un significativo incremento della percentuale del votanti, circa il 71% degli avanti diritto (percentuale questa volta nettamente più alta della media nazionale, ferma al 60,7%) e che si mantenne sostanzialmente invariata anche nelle successive elezioni del 1886 e del 1890, sancendo il superamento di quel macroscopico astensionismo che aveva caratterizzato, anche a Ferrara, la partecipazione alle elezioni politiche nel primo ventennio postunitario.

Una più significativa cesura, che concludeva una fase importante del dibattito sull’evoluzione del sistema elettorale italiano si ebbe con le leggi le leggi del 30 giugno 1912, n. 666 e 22 giugno 1913, n. 648 – poi raccolte e coordinate nel T.U. 26 giugno 1913, n. 821 con cui il governo Giolitti introdusse in Italia il suffragio quasi universale maschile. La nuova legge, che non ripudiò il principio che la capacità dovesse essere il fondamento dell’elettorato, estendeva il diritto di voto ai cittadini maschi di oltre 30 anni anche se analfabeti e, fra i cittadini maschi dai 21 ai 30 anni, a tutti coloro che sapessero leggere e scrivere o, più in generale, fossero in possesso dei requisiti stabiliti dalle leggi precedenti, nonché a coloro che avessero prestato servizio militare per un certo periodo. Per garantire meglio la libertà e la sincerità del voto contro ogni possibile violenza, corruzione o frode venne introdotta anche la cosiddetta “busta di stato”, una busta di tipo unico nella quale l’elettore doveva introdurre la scheda. Gli elettori passarono così dall’8,3% – elezioni del 1909 – al 23,2% della popolazione. Non si attuò invece la revisione dei Collegi elettorali in base ai censimenti delle popolazione e la Camera respinse, a grande maggioranza con votazione per appello nominale, la concessione del voto alle donne. Alle prime elezioni con il suffragio quasi universale maschile del novembre del 1913 (la nuova normativa fu in realtà impiegata soltanto alle elezioni politiche del 1913) il numero degli aventi diritto al voto per la provincia di Ferrara salì così a 72.466, e ben 53.028 si recarono alle urne, pari al 73,18% degli aventi diritto. La partecipazione più alta al voto si ebbe nei Collegi di Ferrara, con il 77%, e di Comacchio, con 78%. A Ferrara, le prime elezioni con il suffragio quasi universale rappresentarono soprattutto il definitivo avanzamento del partito socialista italiano, che già nelle precedenti elezioni del 1909 aveva conquistato due seggi, Comacchio e Portomaggiore (il primo candidato del partito socialista a conquistare un seggio nella circoscrizione elettorale ferrarese fu Enrico Ferri, vincitore nel Collegio di Portomaggiore alle elezioni del 1904). Nel 1913, l’ascesa delle forze socialiste era completata: se nel Collegio cittadino la vittoria andava all’avvocato ferrarese, nonché marchese, Ercole Mosti Trotti, gli altri tre seggi erano tutti appannaggio dei rappresentanti del PSI: l’avvocato Mario Cavallari si assicurava il Collegio di Portomaggiore (già conquistato nelle elezioni del 1909), il pubblicista Guido Marangoni quello di Comacchio (anch’esso già acquisito nelle elezioni del 1909) e il medico Armando Bussi prevaleva in quello di Cento.

 IP, 2011

Bibliografia

Prosdocimo Benini, I deputati della Repubblica Romana. I rappresentanti del Popolo. Il Plebiscito. I Senatori. I Collegi politici della Provincia di Ferrara (dal 1848 al 1913): cenni storico-statistici, Portomaggiore, Tipografia Sociale, 1914; Pierluigi Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’Unità al fascismo, Bologna, il Mulino, 1988; L’Emilia Romagna in Parlamento (1861-1919), a cura di Maria Serena Piretti, Giovanni Guidi, Bologna, Centro Ricerche di Storia politica, 1992 (vol. I: Collegi, elezioni, comportamento parlamentare; vol. II: Dizionario dei deputati); Maria Serena Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1995; Amerigo Baruffaldi, Giorgio Turbiglio: penalista e deputato liberale di Ferrara e di Cento in età post-unitaria (1844-1918), Cento (Ferrara), Comune di Cnto, 2011.


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