Il periodo postunitario fu un'epoca di grandi trasformazioni che investirono il territorio ferrarese e ridefinirono le dinamiche politiche e sociali della provincia. Si trattò di collegare Ferrara al resto del paese con la costruzione della rete ferroviaria (avviata nel decennio precedente), di insediare il nuovo Stato in provincia per mezzo di un apparato amministrativo fortemente centralizzato, di formare una classe di rappresentanza politica attraverso le consultazioni elettorali. Il capoluogo vide nel corso dei decenni consistenti cambiamenti che ridisegnarono il volto della città grazie ad esempio all'interramento di canali, alla costruzione dell'acquedotto, alla nascita di trasporti pubblici urbani, inizialmente a cavallo poi elettrici, all'edificazione a partire dall'inizio del Novecento di nuovi quartieri popolari. Un lento processo di scolarizzazione obbligatoria e pubblica fu avviato altresì nella provincia di Ferrara (a partire dalla legge Coppino del 1877) che pativa come il resto d'Italia un tasso di analfabetismo altissimo, specialmente nelle zone rurali.
In apertura degli anni Settanta, l'attenzione del nuovo Stato italiano fu drammaticamente portata sulla provincia di Ferrara a causa delle terribili inondazioni del Po del 1872, che nel mese di maggio ruppe a Guarda ferrarese, e in ottobre sommerse il territorio nei pressi di Bondeno. Le rotte causarono danni ingentissimi a persone e cose e provocarono un'epidemia di vaiolo presso la popolazione rimasta senza casa e costretta a vivere per mesi sugli argini o in abitazioni di fortuna. Le rotte del 1872 innescarono, tuttavia, una mobilitazione di solidarietà che permise di raccogliere aiuti non solamente a livello nazionale ma anche internazionale.
Nel decennio 1870-1880, un impulso al cambiamento fu dettato dall'opera di bonifica di ampia parte del terre del Ferrarese ricoperte dalle acque vallive. Il basso prezzo dei terreni, più basso rispetto alle province vicine, consentì a investitori britannici (come la società Land Reclamation Limited) e a banchieri torinesi di acquistare a cifre irrisorie dai Comuni e dalla antica nobiltà ferrarese, oltre 20.000 ettari di terre paludose (Polesine ferrarese). Sulle nuove terre bonificate venne avviata una trasformazione fondiaria ad opera di grandi imprese fra cui la Società Bonifica Terreni Ferraresi. Nacquero così aziende capitalistiche votate alla produzione intensiva di cereali che richiamarono nella provincia una grande quantità di manovalanza bracciantile. Grazie all'ampliamento delle terre coltivabili la produzione agricola ferrarese conobbe, dall'Unità sino al 1914, una crescita più che raddoppiata, poiché alla coltivazione del frumento si affiancò anche quella della barbabietola da zucchero e della canapa dando avvio inoltre allo sviluppo di un'industria della lavorazione dei prodotti agricoli. L'aumento delle terre coltivabili fu un fattore di crescita demografica importante nella provincia di Ferrara, aumento che si registrò in maniera significativa proprio nelle zone bonificate.
L'afflusso e la presenza nel ferrarese di lavoratori stagionali ridisegnò la composizione della popolazione rendendo ormai impossibile per la politica locale e nazionale prescindere dalle questioni sociali e dal conflitto che presto si sarebbe scatenato tra le classi padronali e quelle lavoratrici. Il nuovo sistema di conduzione capitalistica della terra portò inoltre alla trasformazione delle preesistenti forme di mezzadria e boaria, che cancellò la suddivisione dei terreni in poderi, a vantaggio dell'utilizzazione di un nuovo tipo di mano d'opera tradizionalmente non legata alla terra, composta da "avventizi" e "obbligati". Nondimeno lo sviluppo in senso capitalistico dell'agricoltura rimase un "affare" di pochi, dei proprietari terrieri ferraresi (vecchi e nuovi) in antagonismo con le grandi società anonime italiane o la svizzera Société Vaudoise d’Exploitations Agricoles di Losanna, i cui interessi economici finivano per determinare e condizionare la vita politica locale e gli esiti dei risultati elettorali.
Le consultazioni di voto che si tennero nel corso degli anni Settanta (1870, 1874, 1876), con Collegio uninominale, sebbene spesso boicottate dall'elettorato cattolico, furono caratterizzate nella provincia di Ferrara dalla contrapposizione tra Destra (Francesco Borgatti, Giacomo Lovatelli, Antonio Mangilli) e Sinistra storica (Giovanni Gattelli, Federico Seismit Doda, che sarà ministro delle Finanze nel governo Cairoli, Giuseppe Carcassi). Proprio la prevalenza elettorale di quest'ultima nelle elezioni del 1876 determinò a Ferrara la crescita del partito democratico-radicale il cui maggiore esponente fu per molti anni Severino Sani. I democratici-radicali, eredi dei patrioti ferraresi del periodo risorgimentale, si distinsero nella difesa delle libertà costituzionali e in una maggiore sensibilità nei confronti delle condizioni delle classi subalterne di fronte ai proprietari terrieri, raccogliendo pertanto consensi all'interno della borghesia professionale urbana e avvalendosi in maniera efficace della stampa, attraverso giornali come «La Rivista», per diffondere le proprie idee. Le battaglie progressiste dei democratici furono tuttavia offuscate dall'arrivismo politico di Sani che provocò, nel corso degli anni Ottanta-Novanta, dissidi interni al partito. Interessato prevalentemente alla propria longevità politica (fu eletto deputato per ben sette legislature), Sani giunse persino a cercare l'alleanza dei cattolici per arginare la crescita dei socialisti. A partire dalle elezioni del 1889, la sinistra radicale del partito si staccò da Sani ma non riuscì ad evitare una “deriva” in senso moderato-conservatore nel corso del tempo.
In questa situazione tendente alla staticità, il cammino che portò all'affermazione in campo politico e in seguito al trionfo elettorale dei socialisti nelle elezioni del 1913 (quando si votò con suffragio universale maschile) fu lento e per lungo tempo “schiacciato” dallo scontro tra moderati e democratici-radicali. Il socialismo, rispetto al resto del territorio italiano, tardò ad imporsi a Ferrara per la lentezza con cui penetrò nel proletariato agricolo una vera e propria coscienza di classe. Mancava inoltre nel capoluogo un consistente proletariato urbano a causa della vocazione agricola della provincia e di una crescita industriale limitata, legata in massima parte all'agricoltura come attestano lo sviluppo della produzione tessile e dello zucchero derivati dalla coltivazione della canapa e della barbabietola.
I Fasci siciliani e i moti in Lunigiana dei primi anni Novanta determinarono il ritorno di Crispi a capo del governo, decretando peraltro lo stato d'assedio per le zone insorte e leggi eccezionali che obbligavano allo scioglimento del partito socialista. In conseguenza di questa dura politica repressiva che restrinse peraltro la libertà di associazione, a Ferrara furono arrestati i dirigenti della Lega socialista locale che avevano partecipato al congresso nazionale del PSI di Reggio Emilia nel 1893, dichiarato sovversivo. A questo arresto seguì il processo, nell'autunno del 1894, in cui i sette imputati ferraresi furono condannati a cinque e sei mesi di carcere e a una pena pecuniaria. Fu solamente quando si esaurirono le repressioni governative che il partito socialista cominciò ad ottenere dei significativi risultati elettorali; nelle elezioni che si svolsero nel 1897, infatti, fu presente in tutti i collegi e raggiunse il 22,1%.
Proprio a partire dal 1897 cominciò un'ondata di scioperi imponente nelle campagne ferraresi che si protrasse ancora sino al biennio 1901-1902 nonostante le dure repressioni e portò all'astensione dal lavoro decine di migliaia di braccianti e boari. Gli scioperi cominciati nel 1897 posero in maniera improrogabile la necessità di affrontare la questione agraria ovvero la disoccupazione cronica stagionale dei braccianti, facendo apparire come gli antichi rapporti di boaria tra padroni e coloni fossero ormai ampiamente superati, soppiantati sempre più da un nuovi rapporti di salariato puro.
Fu in questa situazione di forte tensione che il movimento cattolico ferrarese, che faceva riferimento a livello nazionale all'Opera dei Congressi, maturò la necessità di un intervento concreto nel tessuto sociale volto ad arginare la penetrazione delle idee socialiste presso il proletariato locale. Il periodico settimanale ferrarese «La Domenica dell'Operaio», fondato del 1895, si fece portavoce di una dottrina sociale cristiana che a una denuncia delle condizioni di miseria e di sfruttamento a cui erano costrette le classi lavoratrici nelle campagne, univa una preoccupazione di tipo morale diretta a scongiurare «l'indifferentismo religioso e la scristianizzazione del popolo». Le Unioni Professionali del Lavoro semplici (quelle “miste” non attecchirono mai nel Ferrarese) ideate dall'Opera dei Congressi a partire dal 1901, rappresentarono il tentativo cattolico di creare un dialogo contrattuale tra lavoratori e padroni, che partendo dall'assunto della naturale diseguaglianza delle classi, si proponeva di attenuare il conflitto tra esse. Le Unioni Professionali ebbero una certa diffusione in buona parte della provincia ma gli esiti rimasero tuttavia modesti, forse anche per la mancanza di una cultura economica da parte cattolica.
Nei primo decennio del Novecento che precedette lo scoppio della prima guerra mondiale, la vita politica della provincia di Ferrara fu caratterizzata dalla progressiva affermazione dei socialisti che si imposero nelle elezioni dell'ottobre del 1913, le prime a suffragio universale maschile, sulla base della nuova legge elettorale, ottenendo il 54,4% delle preferenze e dunque tre deputati su quattro (corrispondenti ai quattro Collegi di Cento, Comacchio, Ferrara e Portomaggiore in cui era divisa la provincia). La città di Ferrara, tuttavia, non fu mai un terreno di grandi vittorie per i socialisti a causa della mancanza di un proletariato urbano a cui faceva da contrappeso una borghesia agraria conservatrice, facile alleata dei ceti medi, mentre furono i due Collegi orientali della provincia Comacchio e Portomaggiore, che registrarono il maggior numero di Comuni “rossi”.
CM, 2011
Bibliografia
Luigi Davide Mantovani, Le elezioni a Ferrara dall'Unità allo scrutinio di lista, in «Ferrara. Storia, beni culturali e ambiente», 1, 1996, pp. 19-25; Luigi Davide Mantovani, Liberali, radicali, socialisti: la battaglia delle idee, in 1892-1992. Il movimento socialista ferrarese dalle origini alla nascita della repubblica democratica. Contributi per una storia, a cura di Aldo Berselli, Cento, Cooperativa Culturale Centoggi, 1992, pp. 49-60; Sergio Dardi, Geografia elettorale del socialismo dal 1892 al 1913, ivi, pp. 69-74; Amerigo Baruffaldi – Romeo Sgarbanti, Giuseppe Turri, Il movimento cattolico sociale a Ferrara tra '800 e '900, Ferrara, Corbo, 1993.
Il biennio compreso tra il 1859 e il 1861, tra la seconda guerra di indipendenza e l’adesione al Regno d’Italia, rappresentò per Ferrara e il suo territorio un momento di cambiamento epocale. Cessavano la secolare dominazione pontificia e il presidio militare austriaco sulla città e cominciava una nuova era all’interno di una realtà statuale all’insegna dell’unità nazionale. La storia di Ferrara e della sua provincia divenne parte, come già era successo durante il triennio rivoluzionario e il periodo napoleonico, di un processo storico che coinvolgeva l’intera penisola italiana.
Fu caratteristica comune ai diversi Stati, nel periodo che precedette lo scoppio della guerra, la diminuzione di fatto dei controlli e della vigilanza da parte dei governi locali. A Ferrara, dopo i terribili anni della delegazione Folicaldi, l’autorità pontificia di fatto non impedì l’organizzazione di una rete politica che aveva in Piemonte il suo centro nevralgico. Sul modello della Società Nazionale Italiana, fondata nel 1856 originariamente da Daniele Manin e Giuseppe La Farina e in seguito afferente allo stesso Cavour, il 18 gennaio 1859 anche a Ferrara nacque un comitato locale di tale società, grazie alla mediazione dell’ingegnere Eugenio Canevazzi. Essa si compose di tre membri: il conte Francesco Aventi, i dottori Giovanni Gattelli e Dino Pesci, coadiuvati principalmente da Gaetano Dondi, Luigi Guarnieri, Guido Furlani e Giovanni Perelli. Obiettivo di questo comitato fu quello di raccogliere le forze patriottiche al fine di promuovere un’azione unitaria e indipendentista sotto l’egida della monarchia sabauda. Il comitato ferrarese, dipendente da quello di Bologna, si proponeva la creazione di una forza armata locale, la raccolta di volontari diretti in Piemonte, la promozione di una propaganda per indurre alla diserzione i soldati che militavano tra le file dell’esercito austriaco e pontificio. Era preoccupazione inoltre del comitato annodare rapporti con i liberali del Veneto soprattutto per facilitarne la migrazione in Piemonte.
Il 23 aprile 1859 l’Austria pose fine alle esitazioni e intimò al governo piemontese di cessare le intenzioni bellicose del suo esercito e di procedere allo scioglimento del corpo di volontari organizzato da Garibaldi, i Cacciatori delle Alpi. Il governo di Torino rifiutò una simile intimidazione e ricevette l’aperto aiuto francese, fino a quel momento incerto. Iniziava così la seconda guerra d’indipendenza nazionale che, come è noto, volse rapidamente a favore delle forze alleate franco-piemontesi. Dopo la vittoria di Magenta, il 4 giugno 1859, il 12 successivo Bologna si liberò della dominazione pontificia tanto che il cardinale legato Milesi si trasferì a Ferrara, dove si trattenne sino al 19 giugno, rinnovando le proteste contro la violazione dei diritti della Santa Sede. La liberazione di Ferrara giunse il 21 giugno quando la guarnigione austriaca partì dalla città recandosi oltre il Po. Lo stesso giorno fu deliberato che fosse inviata una commissione composta da quattro cittadini (Francesco Aventi, Giovanni Gattelli, Giuseppe Bagni, Ippolito Guidetti) al delegato mons. Pietro Gramiccia affinché si dimettesse dal suo incarico e lasciasse la sua residenza. Il delegato pontificio non oppose di fatto alcuna resistenza, avendo già dichiarato di cedere alle pressioni della forza e lo stesso 21 giugno il popolo abbatté gli stemmi pontifici, in precedenza tante volte rimossi. Anche la partenza dei contingenti militari austriaci avvenne senza rappresaglie popolari. Era questo il risultato dell’applicazione pedissequa delle direttive che giungevano dal Piemonte affinché l’ordine interno fosse mantenuto e fossero frenate spinte repubblicane e movimenti che coinvolgessero le masse popolari. Ferrara, al pari delle altre Legazioni pontificie, si trovava in una posizione estremamente delicata, rispetto ad esempio agli ex Ducati emiliani sprovvisti di appoggi diplomatici. Le Legazioni, al contrario, risultavano passibili di un intervento da parte degli Stati cattolici, dell’Austria in primis, ma anche, potenzialmente della stessa Francia.
Dal 22 giugno al 23 luglio 1859 la città fu di fatto retta da una giunta provvisoria provinciale i cui membri furono i conti Gherardo Prosperi, Cosimo Masi, Francesco Aventi, il marchese Giovanni Costabili e il dottor Ippolito Guidetti. Preoccupazione principale della Giunta fu di garantire l’ordine pubblico attraverso la creazione di un battaglione di volontari, il nucleo della Guardia Nazionale, posto a protezione della città. Tutti i membri di questa “pentarchia” avevano maturato esperienze politiche nel corso degli anni precedenti, specie durante il 1848-49, come Gherardo Prosperi, che fu uno dei deputati della Repubblica romana del 1849, o Ippolito Guidetti, che si era offerto ostaggio volontario degli austriaci nello stesso anno. Il 7 luglio giunse a Ferrara Giuseppe La Farina, in qualità di commissario per le province venete, inviato da Cavour affinché desse inizio alle operazioni militari nel Veneto, dopo le trionfali vittorie franco-piemontesi contro gli austriaci il 24 giugno a Solferino e San Martino. La Farina trovò una città fondamentalmente inerme, alla mercé di possibili attacchi austriaci, sprovvista di forze militari capaci almeno di sorvegliare il confine settentrionale. La stessa odiatissima fortezza risultava inutilizzabile poiché subito dopo la partenza degli austriaci ne era stata avviata l’opera di smantellamento, terminata solo un anno dopo. Richiamato La Farina in Piemonte il 16 luglio, dopo che si era diffusa la notizia della firma di un armistizio fra Francia e Austria, il 22 dello stesso mese giunse in qualità di regio commissario straordinario per la provincia di Ferrara il marchese Giovanni Antonio Migliorati, già ambasciatore per il Regno di Sardegna nei Paesi Bassi. In quei giorni estivi il destino della città era tuttavia ancora incerto. L’11 luglio Napoleone III aveva firmato l’armistizio di Villafranca e il ritorno di Ferrara sotto l’autorità pontificia e il presidio austriaco potevano essere ancora possibili. Forse fu la complessità della posizione in cui si trovava l’ex Legazione dello Stato della Chiesa a spingere il governo sabaudo a inviare per Ferrara un diplomatico di professione, pronto, all’occorrenza, ad affrontare una situazione piuttosto delicata. Malgrado i timori, tuttavia, l’opera di organizzazione dei territori emiliani continuò senza posa. Alla fine di luglio il commissario Migliorati diede avvio alla prima leva obbligatoria per Ferrara, completando l’opera di formazione di una Guardia Nazionale cominciata dalla Giunta provvisoria; rivolse alla cittadinanza l’appello per la contribuzione al prestito nazionale volontario per la causa nazionale; promosse molti altri decreti che di fatto smantellavano l’ordinamento precedente. All’inizio di settembre si riunirono nell’assemblea delle Romagne a Bologna i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì, che stilarono e approvarono la dichiarazione di annessione al Regno di Sardegna, accolta poco dopo da Vittorio Emanuele II. Negli stessi giorni, l’8 settembre, passò per Ferrara, accolto trionfalmente, il generale Garibaldi, diretto verso l’Italia centrale al fine di costituire una lega militare in difesa della libertà e indipendenza dei territori toscani e in preparazione della sollevazione delle Marche. L’Assemblea delle Romagne proclamò inoltre Luigi Carlo Farini dittatore dell’Emilia, cui spettò il compito di governare le province emiliano-romagnole preparandole all’unificazione formale con il Regno sabaudo. Questa avvenne l’11 e 12 marzo con il plebiscito che chiamò le province della Romagna a decidere sull’annessione al regno di Savoia. A Ferrara l’esito, scontato, sancì il passaggio della città e della sua provincia sotto la corona sabauda, con 48.999 voti favorevoli su 49.220 votanti (ma su di un totale di 219.687 abitanti). Restava la preoccupazione unita alla speranza per i confini settentrionali ancora in mano austriaca. La pressoché contemporanea impresa garibaldina in Sicilia ebbe a Ferrara un’eco e una partecipazione sentite. La campagna di raccolta fondi per l’acquisto di «un milione di fucili» a sostegno dell’impresa di Garibaldi terminò in aprile con un somma raccolta di 24.210 lire, mentre in giugno il Consiglio comunale votò all’unanimità l’offerta di 5.000 lire destinata alla Sicilia per l’indipendenza e l’unificazione. Il 4 agosto e per altri due giorni partirono da Ferrara in totale quattro compagnie di volontari diretti verso il Regno delle Due Sicilie. Ma già il 19 agosto, il governo proibiva l’arruolamento per la Sicilia, nutrendo le speranze di realizzare una spedizione nelle Marche.
In questo periodo di formazione della nuova compagine statale, numerose furono le occasioni in cui vennero indette elezioni politiche e amministrative. La partecipazione degli elettori non fu mai particolarmente consistente, e le elezioni a suffragio ristretto, sulla base della legge sabauda del 20 novembre 1859 che riformava la legge elettorale del 17 marzo 1848, impegnarono una parte esigua della popolazione. In previsione delle consultazioni che avrebbero designato i deputati ferraresi da inviare nel Parlamento di Torino fu intensificata l’opera di propaganda per garantire una maggiore affluenza alle urne. Nelle elezioni che si tennero alla fine del gennaio 1861 per l’VIII Legislatura, la prima del Regno d’Italia, risultarono eletti per Ferrara l’avvocato Francesco Mayr con 300 voti e il professore Carlo Grillenzoni con 295 voti. Tra i primi impegni che occuparono attivamente i deputati ferraresi nelle sedute parlamentari vi fu l’annosa questione della ridefinizione dei confini della provincia di Ferrara stabilita dal decreto dittatoriale Farini del 27 dicembre 1859. Carlo Grillenzoni si fece portavoce alla Camera di una petizione della Deputazione provinciale di Ferrara, che invocava la reintegrazione dei Comuni perduti (in particolare i sette della cosiddetta Romagnola passati a Ravenna) per ragioni storiche, economiche e di prestigio. La provincia di Ferrara entrava dunque a fare parte del Regno d’Italia con un territorio meno esteso rispetto a quello della Legazione e una popolazione sensibilmente ridotta (da 244.524 a 199.158 abitanti, secondo i dati riportati dal Pesci).
CM, 2011
Bibliografia
Dino Pesci, Statistica del Comune di Ferrara compilata sopra documenti ufficiali. Con aggiunta di cenni storici intorno a Ferrara, Ferrara, Tipografia Domenico Taddei, 1870; Andrea Ostoja, Il 1859 a Ferrara, in «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, n.s., 21, 1960, pp. 7-52; Andrea Ostoja, Ferrara nel 1861, «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, n.s., 23, 1961; Umberto Marcelli, Le vicende politiche dalla Restaurazione alle annessioni, in Storia dell’Emilia Romagna, vol. 3, a cura di Aldo Berselli, Bologna, University Press Bologna, 1980, pp. 67-126.
Il periodo che seguì la caduta della Repubblica romana fu dominato dalla figura del conte Filippo Folicaldi che dalla fine del maggio 1849 sino al luglio del 1856 ricoprì la carica di delegato del governo pontificio. Il governo del Folicaldi fu caratterizzato da una dura politica reazionaria diretta a soffocare, grazie alla congiunta azione repressiva austriaca, quanto rimaneva dei movimenti del ’48-’49. Sulla base delle direttive del governo di Roma, fu istituito a Ferrara un Consiglio di Censura che vigilasse sulle opinioni e sulla condotta dei funzionari, ufficiali e magistrati municipali. Folicaldi penò tuttavia non poco a reperire i tre membri di cui si doveva comporre il Consiglio, a causa del rifiuto reiterato di coloro ai quali veniva via via proposta la carica. Nell’aprile del 1851 il delegato pontificio diede ordine ai presidenti della Società del Casino di espellere i membri di religione ebraica, accolti nel 1848, secondo un manifesto antisemitismo che riteneva indecorosa l’associazione congiunta dei cattolici con gli ebrei. Fu inoltre consentito agli austriaci di innalzare lo stemma imperiale sul portone della casa in cui risiedeva il console austriaco (in corso Giovecca) in riparazione allo sfregio inferto dalla popolazione allo stemma la sera del 2 novembre 1848. La presenza austriaca, venuta nel frattempo meno a Comacchio, ma rimasta salda in città, non mancò nuovamente di essere all’origine di episodi di abusi e crudeltà, il più grave dei quali si verificò tra il 1852-53. A partire dal luglio del 1852 sino al dicembre dello stesso anno, gli austriaci, coadiuvati dalla gendarmeria pontificia, procedettero a una serie di perquisizioni che portarono all’arresto di quarantaquattro ferraresi. Si trattava di un’operazione volta a smantellare la rete di una presunta cospirazione contro il governo austro-pontificio, sospettata di agire anche a Ferrara. Agli arresti seguì il processo che si protrasse sino al gennaio del 1853 durante il quale dodici imputati furono sottoposti a torture al fine di estorcere loro confessioni. La rivolta scoppiata a Milano il 6 febbraio inasprì l’atteggiamento degli austriaci nei confronti dei reclusi e di fatto il processo in corso a Ferrara volle suonare come un monito per coloro che intendessero tramare contro il governo. Il 15 marzo fu letta la sentenza che colpiva i dodici imputati detenuti nella Fortezza: dieci di essi furono condannati a morte in quanto rei di alto tradimento, i rimanenti due, Stefano Botari e Gaetano Degiuli, rispettivamente a quindici anni di lavori forzati e a due di carcere. Tuttavia sette dei condannati a morte (Andrea Franchi-Bononi, Giovanni Pareschi, Gaetano Ungarelli, Aristide De Luca, Francesco Gandini, Vincenzo Barlaam, Camillo Mazza), furono graziati e la pena fu commutata in lavori forzati (che scontarono ad Ancona). A Giacomo Succi, Domenico Malagutti e Luigi Parmeggiani, invece, la sentenza di morte fu confermata mediante fucilazione eseguita senza dilazione la mattina del giorno dopo (16 marzo). Il governo pontificio non solo non oppose alcuna obiezione a tale condanna e prima ancora a un processo, manifestamente iniquo, che portava giudizio sui propri sudditi, ma si assunse altresì l’onere delle spese legali e avallò il protrarsi di una azione repressiva di polizia che continuò per tutto il 1853. Solamente il giorno successivo alla fucilazione dei tre sfortunati patrioti, valga ad esempio, fu arrestato uno studente universitario con l’accusa di aver consigliato ad alcuni compagni di non assistere alle lezioni il giorno dell’esecuzione della sentenza. Alla difficile situazione politica, tra il 1853 e il 1854 si aggiunsero un peggioramento climatico che durò per circa nove mesi, la crisi annonaria e infine la carestia. A quest’ultimo flagello seguì lo scoppio in città e in tutta la provincia di un’epidemia di colera che imperversò durante tutto il 1855.
All’inizio di luglio 1856 il Folicaldi lasciò l’incarico di delegato pontificio, mettendo fine a sei anni di odiato governo sulla città e provincia di Ferrara. La partenza di Folicaldi era una conseguenza di quanto era stato affrontato nel corso del Congresso che si era tenuto a Parigi dal febbraio all’aprile dello stesso anno per siglare gli accordi di pace dopo la fine della guerra di Crimea. In quell’occasione Francia e Inghilterra avevano accolto le rimostranze di Cavour, rappresentante del governo sabaudo, sulla necessità di un ammorbidimento e rinnovamento del governo pontificio sulle Legazioni e sull’urgenza del ritiro del presidio austriaco dalle province di confine. Il nuovo delegato, mons. Pietro Gramiccia, si mostrò decisamente più mite del suo predecessore e quando il 10 luglio 1857 Pio IX fece visita a Ferrara, dove si trattenne sino alla mattina del 15, il pontefice fu accolto da manifestazioni di giubilo. Si trattava, in effetti, di una tappa del “tour” che il pontefice aveva intrapreso dai primi di maggio allo scopo di rilanciare la propria immagine nel territorio pontificio. In occasione dell’arrivo del papa, la città fu parata a festa con ingenti spese per il municipio e grandissima partecipazione di folla anche dalle vicine regioni venete. Durante il soggiorno ferrarese impartì la benedizione a circa 3.000 operai impegnati nell’opera di bonifica inaugurata nell’aprile precedente, la Bonificazione piana, che avrebbe portato al prosciugamento del fossato che circondava le mura cittadine. La messa funebre celebrata in duomo all’inizio di gennaio del 1858 in occasione della morte del feld-maresciallo Radetzky fu l’ultimo gesto d’ossequio agli austriaci a cui la città si dovette prestare. Con lo scoppio della seconda guerra di indipendenza, il 21 giugno 1859 Ferrara si liberò in maniera incruenta del delegato pontificio e delle milizie austriache che presidiavano la città. Dal 22 luglio al 23 ottobre Ferrara fu retta dal marchese Giovanni Antonio Migliorati, in qualità di intendente nominato da Torino, che avviò un processo di omogeneizzazione dell’amministrazione ferrarese in vista dell’annessione della provincia a una realtà statuale più grande su base piemontese. Le leggi e i regolamenti civili e di procedura furono aboliti, sostituiti con il Codice Napoleone (civile organico e di procedura), le funzioni amministrative e politiche furono dichiarate incompatibili con quelle giudiziarie, venne affermata la parità dei cittadini nei diritti civili e politici senza distinzione di culto. Fu avviato inoltre il processo di uniformità delle imposte e di conversione della moneta pontificia con quella di conio sardo, e adottato il sistema di pesi e misure metrico-decimale al fine di favorire i commerci interni. Il nuovo governo si garantì il controllo sull’istruzione, pubblica e privata, e la tutela degli istituti di beneficenza pubblica, e adottò decreti diretti a favorire i bisogni delle popolazioni meno abbienti, come la riduzione del prezzo del sale e l’abolizione di imposte su molte voci di largo consumo.
Estromessi i democratici mazziniani dal processo di unificazione, a Ferrara si imponeva in conformità con le direttive di Cavour un orientamento politico moderato che mirava ad estromettere il più possibile le masse dalla costruzione della nuova nazione, come attestavano le leggi sul suffragio elettorale e la costituzione di una Guardia Nazionale su basi censitarie. La corrente moderata che prevalse a Ferrara, costituita dalla nobiltà locale e ricchi possidenti, si mostrò tuttavia più incline che altrove a mantenere immutati i rapporti di potere. Nel passaggio dalla dominazione pontificia al Regno d’Italia rimase inalterata la composizione della classe dirigente insensibile alle condizioni di miseria in cui versavano i ceti subalterni e in particolare gli abitanti delle zone rurali. Nel corso del 1860 si intensificarono nelle campagne ripetuti episodi di aggressioni notturne a persone isolate, e a nulla valsero gli inviti del ministro dell’Interno delle Province dell’Emilia, Carlo Mayr, a privilegiare una linea che mirasse a eliminare la miseria e la mendicità, o gli appelli della stampa locale (la «Gazzetta di Ferrara») che, denunciando l’indigenza dei contadini e l’assenza di una legge agraria che regolasse i rapporti tra coloni e padroni, invitava i proprietari terrieri «a una più equa compensazione dei prodotti in ragione dell’impiego delle forze». Si preferì, al contrario, considerare tali episodi di violenza come fatti di ordinaria delinquenza piuttosto che scorgere in essi i prodromi di un radicato e profondo malessere sociale. Con il plebiscito del marzo 1860 la provincia di Ferrara fu annessa al Regno sabaudo. Il 20 dello stesso mese, il Consiglio comunale votò un indirizzo al re con il quale affermò fra le altre cose che «Ferrara guardiana del reale fiume della Penisola, lieta di vederlo nascere ed unirsi al mare sotto uno scettro solo, si contrista scorgendo alle sue torri che grande tratto della sinistra sponda lambe le terre di fratelli gementi in straniera schiavitù». Il periodo compreso tra l’annessione al Regno di Sardegna e la terza guerra di indipendenza del 1866 fu infatti contraddistinto a Ferrara da una spiccata attenzione per le sorti del Veneto. L’emigrazione proveniente dall’Oltrepò andò a rimpolpare a Ferrara le fila di coloro che sostenevano, anche attraverso le pagine del quotidiano democratico «La Sentinella del Po», l’urgenza di un intervento volto a liberare il territorio italiano dalla dominazione austriaca. Nel 1865 fu fondata la Società Democratica Unitaria Ferrarese, il cui comitato promotore, composto da Francesco Aventi, Giovanni Gattelli e Gaetano Dondi, conferì la presidenza onoraria a Garibaldi, a testimonianza di un dissenso nei confronti della politica prudente e dipendente dalla Francia del presidente del Consiglio La Marmora. Quando nel giugno del 1866 scoppiò la guerra tra Austria e Prussia, già da mesi a Ferrara la Società democratica aveva creato un comitato per l’arruolamento che vide l’adesione di oltre 700 volontari (in prevalenza artigiani, domestici, esercenti) solo per il circondario di Ferrara. Nell’organizzazione delle operazioni belliche, il Ferrarese fu attraversato da almeno duecentomila uomini diretti al fronte veneto, mentre la città divenne per breve tempo il quartier generale delle forze militari italiane, tanto che il 14 luglio 1866 i generali La Marmora e Cialdini e il governo presieduto da Ricasoli vi tennero un Consiglio di guerra alla presenza del re Vittorio Emanuele II. La partecipazione volontaria “popolare” alla guerra che portò all’unione del Veneto al Regno d’Italia fu l’espressione a Ferrara di una partecipazione politica che aveva allargato le proprie basi ma che restava ancora sostanzialmente urbana, rimanendone esclusi i contadini, analfabeti, che avevano preso parte agli eventi bellici come soldati di leva. Essa rappresentò tuttavia il momento di inizio di un lento e osteggiato cambiamento delle dinamiche politiche e sociali ferraresi che si sarebbe prodotto compiutamente nel corso dei decenni successivi.
CM, 2011
Bibliografia
Fasti legislativi e parlamentari delle rivoluzioni italiane nel secolo XIX, a cura di Emanuele Bollati, vol. II, 1859-61, parte I, Lombardia-Emilia, Milano, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1865; Andrea Ostoja, Il 1859 a Ferrara, in «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, n.s., 21, 1960, pp. 7-52; Id., Ferrara nel 1861, «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, n.s., 23, 1961; Aldo Berselli, Primi decenni dopo l’Unità, in Storia dell’Emilia Romagna, vol. 3, a cura di Id., Bologna, University Press Bologna, 1980, pp. 257-305; Luigi Davide Mantovani, Garibaldini ferraresi e la guerra del Veneto nel 1866, in Garibaldi e il Polesine tra Alberto Mario, Jessie White e Giosuè Carducci, a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Atti del 30° convegno di studi storici (Lendinara e Rovigo, 26-27 ottobre 2007), Rovigo, Minelliana, 2009, pp. 189-218.
I rivolgimenti politici che agitarono la penisola italiana nel corso del 1848-1849 furono preceduti da un cosiddetto "biennio riformista" che coinvolse in larga parte anche lo Stato della Chiesa e dunque Ferrara. L’elezione a pontefice di Giovanni Maria Mastai Ferretti con il nome di Pio IX, il 16 giugno del 1846, fece nascere negli ambienti intellettuali italiani la speranza di un cambiamento: il nuovo papa concesse nel territorio dello Stato della Chiesa una moderata libertà di stampa, istituì la Guardia Civica e la Consulta laica di Stato. Fu convinzione in quei pochi anni che precedettero lo scoppio delle rivoluzioni del 1848 che Pio IX fosse l’iniziatore di una nuova era per l’Italia.
Il 17 luglio 1847, in risposta ai disordini che opponevano sanfedisti a liberali insanguinando la Romagna, la città di Ferrara fu occupata da un contingente dell’esercito austriaco (composto da 800 croati e 60 ungheresi a cavallo, provvisti anche di 3 cannoni), che si installò nelle due caserme di San Benedetto e San Domenico. Senza precedenti accordi, gli austriaci estendevano di fatto all’intera città il presidio militare dalla fortezza che occupavano in ottemperanza agli articoli del Congresso di Vienna, suscitando la reazione del pontificio cardinale Ciacchi e un vivo malcontento anche nelle altre città legatizie. La reazione dello stesso Pio IX, risoluto a condannare il colpo di mano austriaco, contribuì ad alimentare il mito del pontefice riformista tanto che le province si riempirono delle grida esultanti di “Viva Pio IX”.
In apertura del 1848 il ferrarese Gaetano Recchi fu nominato tra i rappresentanti per Ferrara della Consulta laica, un organo consultivo del governo pontifico aperto ai non ecclesiastici, e pochi giorni dopo, il 14 marzo, Pio IX concesse la costituzione ai suoi sudditi. A suggello di queste riforme, il 21 marzo furono abbattuti i cancelli del ghetto, ponendo così fine alla segregazione degli ebrei a Ferrara. Tre giorni dopo lasciavano la città gli invisi Gesuiti. Contemporaneamente a questi tangibili segni di cambiamento dall’alto, nel resto della Penisola e d’Europa stavano scoppiando focolai di rivoluzione ovunque: in Sicilia, Napoli, Milano, Venezia, Parigi e Vienna. In febbraio a Napoli era stata concessa una costituzione, così come nel marzo successivo a Torino e subito dopo a Firenze. I duchi di Modena e Parma nel frattempo avevano abbandonato i loro territori e il 23 marzo lo Stato sabaudo aveva dichiarato guerra all’Austria. Il 12 aprile partì da Ferrara un contingente di giovani volontari armati di carabine e comandati dal conte Tancredi Trotti Mosti, al quale fu dato il nome di Bersaglieri del Po. La milizia ferrarese raggiunse poi quattro giorni dopo l’esercito dei volontari dello Stato Romano comandato dal generale Ferrari. Tra la primavera e l’inizio dell’estate del 1848 Ferrara funse da punto di raccolta dei vari battaglioni provenienti da diverse parti d’Italia diretti oltre il Po a combattere gli austriaci (si susseguirono gli arrivi delle Legioni Romane, di un piccolo drappello di siciliani e di 6.000 napoletani) e, a partire da giugno, di quelli di ritorno dal fronte. I Bersaglieri del Po fecero ritorno in città il 16 giugno accolti da manifestazioni di giubilo. Un mese dopo, l’esercito austriaco giunse nuovamente alle porte della città ingiungendo al prolegato di fornire viveri alle truppe pena la messa al sacco della città da parte dei soldati. Di fronte a una simile minaccia, il prolegato ubbidì e gli austriaci si ritirarono oltre il Po. L’armistizio di Salasco, firmato il 9 agosto tra il Piemonte e l’Austria, pose fine alla guerra.
L’assassinio di Pellegrino Rossi, capo del governo pontificio (carica che fu ricoperta subito dopo dal ferrarese mons. Muzzarelli), il 15 novembre, e la fuga del papa a Gaeta dieci giorni dopo, non causarono disordini a Ferrara, turbata piuttosto dall’arrivo di un battaglione composto principalmente da bolognesi di passaggio per dirigersi in soccorso degli insorti veneziani della Repubblica di San Marco. Nel frattempo in ottobre era stato inaugurato a Ferrara il Circolo Nazionale (presso casa Pavanelli in corso Giovecca) di cui fu presidente Gaetano Recchi e vicepresidente Carlo Mayr. Insieme agli altri circoli sorti contemporaneamente nello Stato Romano e riuniti il 13 dicembre a Forlì, il Circolo ferrarese espresse la proposta di un governo provvisorio che indicesse le elezioni della Costituente a suffragio universale. Il 20 dicembre la Giunta suprema di Stato ratificò questa proposta e il 21 gennaio successivo furono convocati i collegi elettorali chiamati ad eleggere, per suffragio universale in proporzione al numero di abitanti, i deputati che avrebbero formato la Costituente a Roma. Le elezioni si tennero a Ferrara il 25 gennaio 1849, e videro una partecipazione di circa 30.000 cittadini. I quattordici deputati eletti, resi noti il 2 febbraio, furono: Carlo Mayr, Giovanni Costabili, Gherardo Prosperi, Silvestro Gherardi, Federico Pescantini, Luigi Caroli, Antonio Prioni, Giovanni Cavalieri Donati, Gaetano Bagni, Giacomo Manzoni, Salvatore Anau, Tomaso Stecchi Cavalieri, Pietro Beltrami, Carlo Grillenzoni. A seguito della rinuncia di Giacomo Manzoni, fu nominato Giuseppe Mazzini che, già eletto a Roma, propose come rappresentante del popolo per la provincia di Ferrara l’argentano Gaetano Lizabe Ruffoni. In questa nuova situazione politica la città e il territorio ferrarese dovevano comunque fare i conti con la presenza incombente degli austriaci. All’inizio di febbraio, una schermaglia tra alcuni soldati austriaci che attraversavano la città per procurarsi viveri e alcuni ferraresi degenerò nel sangue: il giovane Giacomo Sani, esponente di una facoltosa famiglia cittadina, fu ucciso a causa di un colpo sparato dagli austriaci, provocando così la reazione degli insorti che uccisero a loro volta tre soldati, e ferirono un ufficiale. Dalla cittadella fu sparato qualche colpo di cannone e in diversi punti della città furono alzate le barricate. Seguirono poi giorni di negoziazione alla fine dei quali gli austriaci se ne andarono a condizione che fosse versata una somma di denaro (in seguito rimessa al papa a Gaeta), che fossero forniti viveri e consegnati sei cittadini in ostaggio. Così gli austriaci lasciarono la città il 18 febbraio e con essi coloro che volontariamente si erano offerti come prigionieri (il cavaliere Antonio Francesco Trotti, il marchese Massimiliano Strozzi, il marchese Girolamo Canonici, Giuseppe Cadolini, Ippolito Guidetti e l’avvocato Giuseppe Agnelli). Contemporaneamente a Roma fu proclamata la Repubblica Romana (9 febbraio) alla quale, con voto di ratifica richiesto a tutte le province dai triumviri Mazzini, Saffi e Armellini, Ferrara e i vari Comuni della provincia aderirono tra il 30 aprile e il primo maggio. Attraverso questo voto i Consigli comunali espressero un’adesione sentitamente partecipata al governo repubblicano. Alcuni membri del notabilato cittadino presero parte diretta al governo della Repubblica. Fu il caso del marchese Giovanni Costabili, nominato dal Triumvirato membro della Commissione amministratrice delle finanze e dell’avvocato Carlo Mayr, già preside della provincia di Ferrara, che fu chiamato a Roma a ricoprire l’incarico di ministro dell’Interno.
L’inizio della guerra ingaggiata dal Piemonte contro l’Austria, nel marzo 1849, ebbe da subito un esito disastroso. Dopo la disfatta di Novara (23 marzo), Carlo Alberto fu costretto a chiedere un armistizio che si rivelò talmente oneroso da spingerlo all’abdicazione in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Gli austriaci giunsero a Ferrara il 6 maggio: il giorno prima erano stati rilasciati i sei ostaggi fatti prigionieri a febbraio. Il 5 era partito da Ferrara un battaglione di studenti comandato da Tommaso Roveroni e contemporaneamente anche un gruppo di volontari agli ordini di Enrico Francia, entrambi diretti alla volta di Roma. Tuttavia, dapprima si fermarono a Bologna poi si diressero ad Ancona (entrambe le città erano cinte d’assedio dagli austriaci), senza così riuscire a raggiungere la capitale. I volontari ferraresi rientrarono pertanto a Ferrara alla fine di giugno. Altri ferraresi, riuniti in un battaglione denominato dell’Unione furono impegnati direttamente a Roma contro l’esercito francese comandato dal generale Oudinot. A Ferrara l’esercito austriaco si accampò fuori dalla porta Po. Il generale Thurn Hohenstein domandò alla città di riconoscere il governo pontificio, ma tanto la magistratura quanto il Consiglio comunale rifiutarono di accondiscendere alla richiesta, mantenendosi fedeli alla repubblica. Questa situazione si protrasse sino alla fine di maggio quando il conte Filippo Folicaldi, delegato pontificio, assunse il governo della città in nome del papa. Il 4 luglio fu sciolto il Consiglio comunale ed eletta una commissione amministrativa di cui fu nominato presidente Eugenio Righini. Intanto a Roma, il 1° luglio, di fronte ad una impossibile resistenza contro l’armata francese, la Costituente aveva dovuto capitolare. L’indomani Giuseppe Garibaldi raccolse un gruppo di strenui volontari (4.000 uomini) per continuare la lotta dirigendosi verso l’Italia centrale. Quando giunse in Romagna, venute meno le speranze di una sollevazione delle province attraversate, la compagnia si sciolse e l’eroe dei Due Mondi, recuperati alcuni vascelli a Cesenatico, si imbarcò con pochi resistenti alla volta di Venezia per andare in soccorso della repubblica. Intercettato dagli austriaci, Garibaldi, accompagnato dalla moglie Anita, dovette sbarcare forzatamente a Magnavacca il 3 agosto. Dopo aver vagato due giorni, fu aiutato dal patriota comacchiese Gioacchino Bonnet che, incurante delle minacce degli austriaci a chiunque prestasse aiuto ai garibaldini, fornì un riparo ai fuggitivi e prestò gli ultimi soccorsi ad Anita, incinta e ormai stremata dalla marcia forzata a cui era stata costretta dopo la fuga da Roma.
Gli avvenimenti che si susseguirono nel corso del 1848 e 1849 videro a Ferrara una partecipazione popolare più larga rispetto ai moti insurrezionali precedenti, come dimostrano l’episodio dell’inizio di febbraio 1849, e la diffusione di idee fautrici di una partecipazione più ampia della politica, attestata dalle pagine del periodico repubblicano ferrarese «La Campana democratica del Lunedì».
CM, 2011
Bibliografia
Dino Pesci, Statistica del Comune di Ferrara compilata sopra documenti ufficiali. Con aggiunta di cenni storici intorno a Ferrara, Ferrara, Tipografia Domenico Taddei, 1869; Guido Magnoni Trotti, Renato Sitti, La vicenda dell’Unità d’Italia a Ferrara, prefazione di Luciano Chiappini, Ferrara, Sate, 1970; Luigi Davide Mantovani, Le elezioni per la Costituente romana a Ferrara nel gennaio del 1849, in Memoria e attualità dell’epopea garibaldina: atti e memorie del 150° anniversario della Trafila garibaldina e della Repubblica Romana, a cura di Sauro Mattarelli e Claudia Foschini, Ravenna, Longo, 2002, pp. 65-98; Gioacchino Bonnet, Lo sbarco di Garibaldi a Magnavacca: episodio storico del 1849, [ristampa dell’edizione del 1887], Ferrara, Centro Servizi per il Volontariato, 2009; Luciano Maragna, Ferrara e la Repubblica Romana. 1849: la ribellione, gli ostaggi, i protagonisti nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Ferrara, ed. a cura dell’autore, 2010.
La notizia della rivoluzione di luglio in Francia nel 1830, detta anche delle «trois glorieuseus» giornate del 27, 28 e 29, che ponendo fine al regno reazionario di Carlo X portò all’ascesa al trono di Luigi Filippo d’Orléans, ebbe ripercussioni immediate in Europa. In ottobre il Belgio proclamò e ottenne l’indipendenza dall’Olanda, grazie al principio di non intervento proclamato dalla Francia, mentre alla fine di novembre fu la volta della Polonia, il cui tentativo di ottenere l’indipendenza non raccolse, tuttavia, l’appoggio delle potenze europee. In Italia il movimento originato dalla Rivoluzione di Luglio fu accolto con entusiasmo dai patrioti che, malgrado le repressioni degli anni Venti, non avevano rinunciato all’attività cospirativa. Anche a Ferrara l’opinione pubblica si mostrò favorevole alla rivoluzione liberale d’Oltralpe. Nel territorio ferrarese circolavano periodici costituzionali e rivoluzionari francesi che giungevano in Italia grazie a una rete di persone piuttosto estesa tale da predisporre e informare, quando non infiammare, gli animi dei patrioti italiani. I moti scoppiati nel 1831 nei Ducati emiliani e nello Stato della Chiesa, pur inserendosi all’interno dell’ondata di rivoluzioni originata dagli eventi francesi, presero tuttavia avvio da una cospirazione passata poi alla storia con il nome di “congiura estense”. Ordita su iniziativa dell’avvocato modenese Enrico Misley, che intratteneva rapporti con i carbonari italiani, con il comitato cosmopolita di Parigi e con quello italiano di Londra, e agiva in combutta con il patriota modenese Ciro Menotti, la cospirazione prevedeva lo scoppio di una rivoluzione che portasse alla costituzione di un regno d’Italia centrale su base costituzionale. Il programma moderato del Misley faceva assegnamento sulle ambizioni di Francesco IV, duca di Modena, strettamente legato all’Austria, già distintosi per le sue spiccate tendenze assolutiste, ma desideroso di allargare il proprio potere a un territorio più vasto di quello angusto assegnatogli dal Congresso di Vienna. Nel corso dell’autunno-inverno del 1830, Ciro Menotti organizzò l’insurrezione nelle varie città dell’Emilia, convinto dal Misley che la causa italiana avrebbe potuto fare affidamento, come nel caso del Belgio, sul principio di «non intervento» proclamato dalla Francia o meglio sull’appoggio francese in caso di un intervento militare austriaco. Tuttavia, all’inizio di febbraio 1831, Francesco IV tradì la causa patriottica e svelò la congiura facendo arrestare alcuni congiurati tra i quali lo stesso Menotti. Il tradimento all’ultimo momento del principe estense non impedì lo scoppio dell’insurrezione, che dilagò il 4 febbraio a Bologna, dove erano giunti alcuni patrioti modenesi. Di fatto gli insorti vennero a patti in maniera del tutto pacifica con il prolegato, il quale acconsentì alla formazione di una commissione che avrebbe assunto il governo provvisorio della città e della provincia di Bologna nel momento stesso in cui il rappresentante del potere pontificio avesse abbandonato la Legazione. Il 5 febbraio 1831 giunse notizia a Ferrara dell’insurrezione scoppiata a Modena e a Bologna, quasi in contemporanea con l’annuncio dell’elezione al soglio di Pietro di Gregorio XVI: due giorni dopo, il 7, fu l’antica città estense a sollevarsi. Senza incontrare eccessiva resistenza, i liberali ferraresi occuparono i posti di guardia della città e il Castello, residenza del prolegato, venne ceduto agli insorti dallo stesso rappresentate pontificio, costretto a lasciare immediatamente il territorio della Legazione nonostante la presenza in città di una ingente guarnigione austriaca. Il giorno successivo venne costituita una commissione che a nome del governo provvisorio diminuì il prezzo del sale, istituì una Guardia civica nazionale, e ordinò che fossero sospese le feste indette dall’autorità pontificia per onorare l’elezione del nuovo papa. Il 9 febbraio furono eletti i membri del governo provvisorio insurrezionale di Ferrara, subito comunicati alla cittadinanza: Alfonso Guidetti ne fu il presidente, il conte Vincenzo Massari, il cavaliere Giovanni Battista Boldrini, il conte Pier Gentile Varano, gli avvocati Ippolito Leati e Antonio Delfini, gli altri componenti e Gaetano Recchi il segretario. Il governo provvisorio che si formò a Ferrara fu composto principalmente dall’élite locale, borghese e aristocratica, di orientamento liberale moderato, nella quale l’elemento carbonaro, pur non essendo escluso, fu “relegato” a una funzione operativa. Fu questo il caso di Giuseppe Delfini, protagonista della "vendita" ferrarese nel periodo della Restaurazione, che divenne capo della polizia. Gli strati più umili della popolazione furono invece confinati a un ruolo marginale: l’azione dei nuovi gruppi dirigenti non coinvolse né la fascia più estesa della popolazione, i contadini, né i meno numerosi piccoli produttori cittadini. A Ferrara, come nelle altre province settentrionali dello Stato della Chiesa, dunque, gran parte della nobiltà e della borghesia locale avevano aderito apertamente alla “rivoluzione” partita da Modena. I ceti meno abbienti, soprattutto quelli artigianali si mostrarono tuttavia favorevoli a questo nuovo stato di cose mentre le masse contadine, pur non prendendo parte attiva ai moti, non risposero all’invito del governo papale di insorgere contro i nuovi governanti, dietro pretesto dello spauracchio dell’introduzione della coscrizione militare.
Tra i primi provvedimenti presi dal nuovo governo vi fu l’abolizione della tassa di focatico e la cacciata dal territorio legatizio dei Gesuiti: sul loro convento fu innalzata la bandiera italiana e venne destinato alla Guardia Nazionale. Si trattava di misure concepite allo scopo di prevenire e scongiurare i disordini e lo scontento popolare. In effetti, a eccezione di un tumulto originato il 20 febbraio per il prezzo del pane, peraltro subito sedato, il mese rivoluzionario trascorse senza rappresaglie. Contemporaneamente le diverse province insorte inviavano i propri rappresentanti a Bologna, dove il 26 febbraio si riunivano in un’assemblea costituente, che il 4 marzo successivo stilava una Costituzione delle Province Unite. In rappresentanza di Ferrara per il potere legislativo figurava l’avvocato Antonio Delfini, già membro del governo provvisorio ferrarese. Il 6 marzo, tuttavia, giunsero a Ferrara le truppe austriache che occuparono la città. Il maresciallo Frimont, capo dell’esercito austriaco, rendeva noto ai cittadini che egli prendeva possesso della città per conto del papa, dichiarando al contempo decaduto il governo provvisorio. Nello stesso tempo, nominava quali rappresentati del governo pontificio a Ferrara il barone Flaminio Baratelli, il conte Camillo Trotti e il conte Girolamo Crispi. Alcuni di coloro che avevano preso parte al governo provvisorio riuscirono a fuggire, altri furono messi agli arresti domiciliari in attesa di disposizioni ulteriori. Altri ancora scelsero l’esilio dal quale non fecero più ritorno. Il 21 marzo infine, gli austriaci ristabilirono anche a Bologna l’autorità papale, soffocando così l’ondata rivoluzionaria dell’inverno 1831. All’interno del territorio della Legazione ferrarese un ruolo rilevante nell’insurrezione contro il potere pontificio fu svolto da Argenta che si distinse per gli strenui scontri in opposizione a un nemico numericamente superiore.
Il ritorno del governo pontificio nelle Legazioni, coadiuvato da un massiccio intervento delle truppe austriache, suscitò un profondo malcontento nella diplomazia francese, peraltro sorretta dalle altre maggiori potenze europee. Si consigliò al nuovo pontefice Gregorio XVI di concedere riforme che andassero nella direzione di una maggiore apertura all’elemento laico nella conduzione della politica locale, per attenuare il monopolio ecclesiastico delle cariche amministrative e giudiziarie. L’ingerenza del consesso delle potenze non fu gradita al pontefice che riportò le Legazioni alla situazione precedente. A Ferrara, Bologna, Forlì e Ravenna fu insediato un commissario straordinario nella persona del cardinale Giuseppe Albani, con poteri amplissimi che prevedano il compito di ristabilire la legalità e avviare un processo di epurazione e punizione dei responsabili delle rivolte. Tali misure consentirono fra il 1832 e il 1836, anno in cui fu abolito il commissariato straordinario e ricostituite le quattro Legazioni sotto la direzione di un prelato, di ripristinare appieno il governo pontificio senza procedere alle riforme promesse in precedenza. Lo Stato della Chiesa aveva ripristinato l’ordine mediante il ricorso ai sanfedisti, milizia inquadrata in reparti di Centurioni e Volontari, che affiancavano nelle azioni repressive le truppe mercenarie svizzere e la polizia papalina.
Le ragioni della partecipazione ai moti che nel corso del 1831 tentarono di rovesciare il governo pontificio, vanno ricercate nelle aspirazioni dei ceti preminenti locali, aristocratici e borghesi, profondamente insoddisfatti dalla gestione del governo pontificio e dalla situazione socio-economica da quest’ultimo determinata. Si trattava di una situazione di stallo forzoso, nella quale alla miseria della maggior parte della popolazione urbana e delle campagne faceva eco la frustrazione della borghesia e dell’aristocrazia, impedite dal monopolio ecclesiastico della pubblica amministrazione a imprimere alla situazione ferrarese una direzione propizia allo sviluppo dei propri interessi economici, politici e culturali.
CM, 2011
Bibliografia
Ferruccio Quintavalle, Un mese di rivoluzione in Ferrara: 7 febbraio-6 marzo 1831, Bologna, Zanichelli, 1900; Guido Magnoni Trotti, Renato Sitti, La vicenda dell’Unità d’Italia a Ferrara, prefazione di Luciano Chiappini, Ferrara, Sate, 1970; Umberto Marcelli, Le vicende politiche dalla Restaurazione alle annessioni, in Storia dell’Emilia Romagna, vol. 3, a cura di Aldo Berselli, Bologna, University Press Bologna, 1980, pp. 67-126; Luigi Davide Mantovani, All’ombra della fortezza. La Carboneria ferrarese fra Romagna e Veneto, in La nascita della nazione. La Carboneria: intrecci veneti, nazionali e internazionali, a cura di Giampietro Berti, Franco Della Peruta, Atti del 26° Convegno di Studi Storici (Rovigo, Crespino, Fratta Polesine, 8-9-10 novembre 2002), Rovigo, Minelliana, 2004, pp. 253-258.
Dopo tre mesi di occupazione austriaca, dal 13 aprile al 18 luglio 1815, Ferrara fu reintegrata a tutti gli effetti sotto la dominazione pontificia. Come si leggeva nell’articolo 103 del Congresso di Vienna concernente le Disposizioni relative alla Santa Sede: «La Santa Sede rientrerà in possesso delle legazioni di Ravenna, Bologna e Ferrara, eccettuata la parte del Ferrarese, situata sulla riva sinistra del Po. S. M. I. e R. A. e suoi successori avranno diritto di guarnigione nelle piazze di Ferrara e Comacchio». Ferrara e il suo territorio tornavano dunque ad essere Legazione dello Stato della Chiesa come prima dell’arrivo dei francesi nel 1796, con l’aggravante però, per le popolazioni locali, della presenza permanente dell’esercito austriaco tanto nel capoluogo quanto a Comacchio. «Gli abitanti dei paesi che rientrano sotto il dominio della Santa Sede in seguito delle stipulazioni del congresso», continuava il trattato di Vienna, «godranno degli effetti dell’articolo 16 del trattato di Parigi del 30 maggio 1814». Sulla base di questo precedente accordo, dunque, e della volontà degli Stati vincitori di dimenticare le «divisioni che avevano agitato l’Europa», si stabilì che nessun individuo potesse essere perseguito in ragione della sua opinione politica o della sua adesione ai governi che avevano cessato di esistere, di fatto quelli napoleonici, in seguito alla fine della guerra.
A dispetto di questa intenzione di generale amnistia, alla restaurazione dell’antico ordine seguì nel territorio ferrarese, come altrove, un’immediata azione repressiva condotta contro coloro che avevano abbracciato attivamente gli ideali rivoluzionari e in particolare contro coloro che avevano aderito, nella settimana precedente all’arrivo degli austriaci, dal 6 al 13 aprile, all’occupazione murattiana della città. Una relazione compilata dalla spia ferrarese al servizio degli austriaci, Flaminio Baratelli, elencava coloro che avevano preso la fuga da Ferrara al momento dell’arrivo degli occupanti e che erano stati oggetto di condanna da parte della polizia pontificia. Nella lunga lista dei patrioti colpiti dalla condanna, effettiva o in contumacia che fosse, figuravano elementi di spicco del notabilato cittadino (aristocratici, possidenti, medici, avvocati, studenti), così come appartenenti a professioni manuali quali calzolai, caffettieri, fornai, tagliapietre, ebanisti, ecc.
La restaurazione del potere del papa sulla città di Ferrara e sul suo territorio si scontrò tuttavia con i cambiamenti prodotti durante il periodo napoleonico. Tali cambiamenti, che coinvolsero e ridefinirono gli antichi assetti socio-economici della città e del territorio, si dimostrarono di fatto irreversibili. Furono soprattutto le cosiddette élite a registrare le variazioni più consistenti di composizione all’interno delle sue fila. Durante il ventennio precedente, infatti, erano emerse famiglie di banchieri, mercanti, avvocati la cui posizione si era ormai consolidata nell’ambito della partecipazione politica cittadina. Molti di esse riuscirono, nonostante le origini borghesi, ad entrare tra le fila della nobiltà a fianco delle famiglie di più antico lignaggio. Questi fattori di relativo cambiamento furono di fatto fondamentali nell’imprimere un atteggiamento di insofferenza nei confronti dell’autorità ricostituita rappresentata in quel primo torno d’anni dal segretario di Stato, il cardinale Ercole Consalvi. Con il motu-proprio di Pio VII del 6 luglio 1816, lo Stato della Chiesa si dotava di un apparato amministrativo omogeneo che faceva proprie le direttive uniformatrici lasciate in eredità dal governo napoleonico sui territori recuperati. Questo nuovo indirizzo politico dello Stato pontificio sacrificava pertanto le vecchie autonomie locali (le magistrature cittadine alle quali in maniera concorrenziale era spettata nel corso dei secoli precedenti una parte più o meno ampia di poteri giurisdizionali) a vantaggio di un sistema di governo centralizzato con sede a Roma, in cui prevaleva l’elemento ecclesiastico e che relegava quello laico a un ruolo subordinato.
L’opposizione al governo pontificio, composta dunque solo dalle élite, restando gli strati più umili della popolazione sotto l’egida dei governanti, si espresse in questi primi anni della Restaurazione attraverso la costituzione di società segrete. Ferrara fu un terreno fertile per la nascente Carboneria a cui aderirono in gran parte quegli stessi ex ufficiali napoleonici che nel corso del decennio precedente erano stati iniziati alla massoneria. Nel 1816 la Carboneria ferrarese, che contava tra i suoi membri di spicco Tommaso Tommasi, Antonio Solera, Giuseppe Delfini, Giovanni Battista Canonici, era di fatto ampiamente strutturata operando di concerto con la società bolognese e intessendo contatti con le società della Romagna, delle Marche, di Reggio Emilia e Modena. Nella vendita di Ferrara centrale era il dibattito sul progetto politico nazionale che prevedeva sostanzialmente la creazione di un’Italia monarchica, costituzionale e confederata. Nel 1818 la polizia pontificia portò allo scoperto l’organizzazione ferrarese dando avvio a una serie di arresti e condanne a morte, in seguito commutate in anni di carcere. Alcuni carbonari ferraresi furono inviati allo Spielberg, come il conte Antonio Oroboni che vi concluse tristemente i suoi giorni, altri ebbero maggiore fortuna e furono inviati a Lubiana a scontare dieci anni di prigionia come il Delfini e il Canonici. Quando nel 1820 scoppiarono a Napoli i moti rivoluzionari seguiti l’anno dopo da quelli in Piemonte, i controlli e la pressione esercitata congiuntamente dalle polizie austriaca e papalina si intensificarono, con arresti e carcerazioni spesso preventivi. Questa rigida sorveglianza esercitata per volontà delle autorità ecclesiastiche contribuì, nel corso degli anni Venti, ad esaurire lo slancio delle attività carbonare a Ferrara, e la breve rivoluzione dell’inverno del 1831 avrebbe relegato a ruoli di secondo piano gli appartenenti alle società segrete protagoniste della prima stagione risorgimentale.
Come è noto, gli accadimenti francesi del luglio 1830 che portarono all’abdicazione di Carlo X e all’ascesa al trono di Luigi Filippo d’Orléans, ebbero un’eco rivoluzionaria in molte parti d’Europa. In Italia l’epicentro dei moti fu il territorio emiliano, e in particolare il ducato di Modena da cui partì un tentativo patriottico di rivoluzione che si consumò nel breve spazio di un mese, dal febbraio al marzo del 1831. Scoppiati a Bologna il 5 febbraio, i moti si diffusero immediatamente negli altri Ducati e Legazioni emiliani, tra cui Ferrara da dove il legato pontificio prese subito la fuga. L’esperienza di governo provvisorio che si istituì a Ferrara, caratterizzato da un orientamento politico moderato, fu tuttavia di breve durata. Il 6 marzo, infatti, l’armata austriaca interveniva in aiuto dei papalini restituendo la città al governo pontificio. A questo tentativo di governo autonomo seguì inevitabile la repressione e un inasprimento dei controlli e delle misure di polizia che si servì anche di società segrete reazionarie come quella dei sanfedisti al fine di sventare forme di associazioni politiche clandestine. Nondimeno, malgrado le rigide misure di controllo, i circoli politici clandestini si diffusero rapidamente a Ferrara dove comunque riusciva a penetrare dagli Stati confinanti una pubblicistica capace di alimentare il dibattito politico, preparando il terreno agli avvenimenti che avrebbero portato ai rivolgimenti, in tutta Europa, del 1848. Fu in questi decenni che cominciò a maturare la consapevolezza presso i ceti moderati e democratici, complice la ricezione delle idee mazziniane e garibaldine, della necessità di superare i manifesti limiti di un’azione meramente riformatrice (espressa inoltre attraverso ristretti gruppi settari) a vantaggio di una lotta politica condotta con mezzi più radicali.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta, le élite locali dimostrarono una certa vivacità di iniziativa, capace di innescare nella società ferrarese modificazioni nella situazione economica, culturale e civile della società, malgrado gli ostacoli posti dall’amministrazione ecclesiastica nel soddisfare tali esigenze di crescita e di investimento in senso capitalistico. Sebbene con ritardo rispetto a tali istanze di sviluppo, nel 1838 nacque il primo istituto di credito ferrarese, la Cassa di Risparmio che nel giro di un decennio avrebbe quintuplicato il proprio totale di cassa, tra patrimonio e credito. Sempre negli stessi anni, nel marzo del 1841, fu istituita dietro gli auspici di Giuseppe Mayr, una scuola teorico-pratica di agraria a capo della quale fu posto l’agronomo Francesco Luigi Botter. La scuola, che cominciò la sua attività nel febbraio del 1843 – nel 1846 fu promossa a Istituto – in un appartamento sito a pian terreno del palazzo dei Diamanti, si proponeva l’obiettivo di insegnare nel corso di due anni scolastici i principi teorici e le pratiche della scienza agraria. Era l’Istituto agrario del Botter l’espressione di una volontà più generale di razionalizzazione della conduzione agricola e dell’aumento della produzione e dei profitti. Anche l’agricoltura ferrarese pativa il ristagno causato dall’amministrazione pontificia che assorbiva con decime e tasse i proventi derivati dal miglioramento dello sfruttamento dei terreni e ostacolava la circolazione delle merci con un rigido sistema doganale. Proprio queste esigenze economiche espresse dall’élite ferrarese, nobile e borghese, unitamente alle aspirazioni (sebbene sempre moderate) di libertà politica, fornirono la spinta per l’adesione ad un più ampio processo di cambiamento di scala nazionale.
CM, 2011
Bibliografia
Patrizio Antolini, Ferrara nella storia del Risorgimento italiano dal 1814 al 1821, Ferrara, Stabilimento Tip. Bresciani, 1885; Patrizio Antolini, Memoria autoapologetica di F... B... ferrarese, commissario generale di polizia, 1813-1833, in «Atti e Memorie» della Deputazione ferrarese di storia patria, XIII, 1901, pp. 168-286; Guido Magnoni Trotti, Renato Sitti, La vicenda dell’Unità d’Italia a Ferrara, prefazione di Luciano Chiappini, Ferrara, Sate, 1970; Luigi Davide Mantovani, All’ombra della fortezza. La Carboneria ferrarese fra Romagna e Veneto, in La nascita della nazione. La Carboneria: intrecci veneti, nazionali e internazionali, a cura di Giampietro Berti, Franco Della Peruta, Atti del 26° Convegno di Studi Storici (Rovigo, Crespino, Fratta Polesine 8-9-10 novembre 2002), Rovigo, Minelliana, 2004, pp. 253-258.
Nel marzo del 1796, l’esercito francese, guidato dal generale Napoleone Bonaparte, mosse per ordine del Direttorio verso la penisola italiana con l’intento di indebolire da sud l’Impero asburgico allora in guerra contro la Francia rivoluzionaria. Dopo essere passato vittorioso in territorio Sabaudo, dove il 28 aprile firmò l’armistizio di Cherasco con Vittorio Amedeo III di Savoia (ratificato nel maggio successivo con la pace di Parigi che stabiliva il passaggio della Savoia e di Nizza, territori sabaudi, alla Francia), il 15 maggio Bonaparte fece il suo ingresso trionfale a Milano accolto dal grido di «libertà per gli Italiani!». L’esercito francese continuò la propria marcia verso i territori posti a sud della Lombardia, occupando quelli del Ducato di Modena e Reggio e le Legazioni pontificie di Bologna, Ferrara e della Romagna.
A Ferrara la notizia dell’avanzata francese e il timore di una possibile invasione cominciarono a diffondersi all’inizio di maggio. Il cardinale legato Francesco Pignatelli dispose una serie di provvedimenti atti, in caso di emergenza, ad assicurare la difesa del territorio ferrarese nei punti più esposti: il forte di Stellata e il porto di Pontelagoscuro. Tuttavia, quando l’arrivo dell’Armée d’Italie presso Ferrara si fece sempre più probabile, il legato pontificio diede ordine di non opporre alcuna resistenza. Il 19 giugno una divisione dell’armata francese invadeva Bologna che fu dichiarata «conquista» della Repubblica francese. Il giorno successivo Bonaparte giungeva nella città felsinea affidando al Senato, previo giuramento di fedeltà alla Francia, il potere legislativo e il governo dell’ex Legazione pontificia. Tra il 20 e il 21 giugno, un ufficiale dell’Armata francese arrivava a Ferrara con l’invito perentorio rivolto alle autorità locali, il cardinale legato Pignatelli, il comandante della Fortezza Giulio Mancinforte, il giudice dei Savi Pietro Luigi Todeschi, di recarsi immediatamente a Bologna per incontrare il generale corso. I primi due furono trattenuti come prigionieri di guerra, mentre Todeschi poté fare ritorno il 21 giugno stesso a Ferrara con l’ordine di convocare per l’indomani il Consiglio Centumvirale (assemblea rappresentativa cittadina istituita da Clemente VIII nel 1598) affinché prestasse il giuramento di fedeltà alla Repubblica francese, e di provvedere all’acquartieramento in città delle truppe. L’avvicendamento politico avvenne, come già a Bologna, senza incontrare opposizioni. La milizia pontificia depose le armi e il 22 giugno si procedette al passaggio formale di Ferrara sotto il nuovo governo: furono rimossi gli stemmi papali dai principali edifici pubblici ed ecclesiastici, sostituiti con quelli della Repubblica francese (simboleggiata da una donna che con una mano teneva una picca sormontata da un berretto frigio, e con l’altra un fascio di verghe con infissa un’ascia) e si procedette al giuramento.
In città non si verificò nessun incidente neppure quando il 23 giugno, in seguito alla firma dell’armistizio siglato tra la Francia e il Papato, fecero il loro ingresso le sparute truppe francesi (circa un migliaio di uomini) poste sotto il comando del generale Jean Gilles André Robert. I soldati d’Oltralpe fraternizzarono facilmente con i simpatizzanti locali: studenti universitari, esponenti della nobiltà antipapale e del ceto medio in ascesa, e la comunità ebraica ferrarese per la quale i cancelli del ghetto rimasero aperti. Con l’arrivo dei francesi cessava dopo 198 anni il governo pontificio su Ferrara che dal 1598 era passata per diritto di devoluzione da capitale del Ducato estense a legazione dello Stato della Chiesa.
Tra i primi provvedimenti attuati dai francesi vi fu la creazione della Guardia Nazionale volontaria, su modello della milizia cittadina del 1789, cui aderirono soprattutto i giovani ferraresi in particolare studenti universitari. La formazione di una guardia civica, il cui scopo era di garantire l’ordine pubblico e la difesa della città, risultò tanto più determinante quando, per rispondere all’offensiva austriaca, i soldati francesi dovettero lasciare Ferrara per raggiungere il Veronese da dove gli austriaci stavano sferrando una controffensiva.
In un primo tempo, su espressa volontà di Bonaparte, furono conservate le precedenti strutture politico-istituzionali ferraresi al fine di assecondare le ambizioni delle élite locali a riappropriarsi di un ruolo dirigenziale, così spesso soffocato dal governo pontificio, nella gestione della cosa pubblica. Tuttavia, dopo i vani tentativi da parte del Papato di rimpossessarsi dell’ex Legazione durante il mese di agosto, tentativi accompagnati dalle insorgenze di Lugo e Cento, all’inizio di ottobre Ferrara assunse un nuovo assetto amministrativo che rappresentò un punto di rottura e una svolta rispetto al recente passato pontificio. Abolito il Consiglio Centumvirale, fu istituita al suo posto l’Amministrazione Centrale del Ferrarese, organismo rappresentativo le cui competenze si estendevano su tutta la provincia, e i cui membri, nominati direttamente da Christophe Saliceti, commissario del Direttorio presso l'Armée d'Italie, segnarono l’affermazione nella gestione del potere di un nuovo ceto patriota prevalentemente borghese che aveva cominciato ad emergere con istanze civili innovatrici già durante l’ultimo periodo pontificio. Tra le prime disposizioni previste dall’Amministrazione Centrale del Ferrarese figuravano lo smantellamento dei privilegi e immunità del clero (come l’abolizione del tribunale dell’Inquisizione e dell’asilo ecclesiastico dei rei) e la concessione della libertà di stampa.
Dal 16 al 18 ottobre Napoleone convocò a Modena i rappresentanti dei governi provvisori delle repubbliche di Reggio, Modena, Ferrara e Bologna, ponendo le basi per la creazione della Repubblica Cispadana che sarebbe stata proclamata a Reggio alla fine di dicembre. Nei giorni seguenti (dal 19 al 22) Bonaparte stesso soggiornò a Ferrara: alla sua presenza fu innalzata in cima alla colonna di piazza Nuova, ora Ariostea, la Statua della Libertà (identica all’icona della Repubblica francese), eretta al posto di quella bronzea di papa Alessandro VII, distrutta poco dopo l’arrivo in città dei francesi. Nei congressi che si tennero in successione a Reggio Emilia e a Modena tra fine dicembre e inizio marzo 1797, durante i quali si discussero gli articoli della costituzione della Cispadana, parteciparono 30 deputati ferraresi eletti a suffragio universale maschile (secondo un meccanismo di voto articolato in tre turni di consultazioni), tra i quali emerse, per levatura intellettuale e isolata fede democratica, il giurista Giuseppe Compagnoni, docente della prima cattedra di diritto costituzionale d’Europa nonché segretario dell’Amministrazione Centrale del Ferrarese.
La costituzione cispadana, in base alla quale Ferrara diventava capoluogo del Dipartimento del Po, fu ratificata nel marzo 1797 per mezzo di un referendum che ne sancì per maggioranza l’accettazione. Tuttavia, proprio nel cantone di Ferrara, dove si registrò una fortissima astensione degli aventi diritto al voto, la carta costituzionale fu respinta. Come sarebbe successo di lì a poco con le elezioni per le municipalità, i giudici di pace e gli elettori dei rappresentanti del corpo legislativo cispadano, i patrioti repubblicani ferraresi dovettero fare i conti molto presto con una coalizione del clero e dell’aristocrazia reazionaria capace di pilotare a proprio vantaggio soprattutto il mondo contadino. La consultazione elettorale, infatti, premiò (sebbene con molti brogli inutilmente denunciati) la compagine composta da preti, aristocratici e conservatori, spingendo così i patrioti ferraresi delusi ad appoggiare il progetto che Bonaparte stava configurando con i preliminari di Leoben (17 aprile 1797) di una grande repubblica del nord d’Italia.
Con la creazione, il 29 giugno del 1797, della Repubblica Cisalpina, Ferrara, e dunque tutta la Cispadana, entrava a fare parte della nuova “repubblica sorella” che accorpava in un’unica entità statuale anche il territorio dell’ex repubblica lombarda. Grazie ad un’efficace attività “diplomatica”, alcuni membri dell’élite ferrarese andarono ad occupare posizioni di rilievo nella nuova ridefinizione politica dell’Italia settentrionale: Giambattista Costabili Containi fu nominato da Bonaparte stesso quinto membro del Direttorio Cisalpino, Giuseppe Rangoni, segretario dell’ambasciatore a Parigi della nuova repubblica, Giambattista Boldrini, già deputato ai congressi cispadani e di noti sentimenti anticlericali che gli valsero l’epiteto di «Robespierre di Ferrara», divenne commissario del potere esecutivo del Dipartimento del Basso Po. Con queste nomine Bonaparte intendeva dunque gratificare l’appoggio fornito dai patrioti ferraresi al progetto di unificazione dell’Italia settentrionale, che tanto era stato osteggiato da un radicato spirito municipalistico e soprattutto dai bolognesi per nulla inclini a perdere l’egemonia raggiunta con la Cispadana. In conformità all’organizzazione del territorio stabilito dalla costituzione, parte di Ferrara e del Ferrarese confluì nel Dipartimento del Basso Po, frammentandosi una parte del territorio storico in altri dipartimenti stabiliti a partire dalla rete idrografica padana.
A livello locale, il periodo della Cisalpina fu contraddistinto fin dall’inizio da continui contrasti che opposero al Direttorio di Milano alcune Municipalità (come Ferrara, Codigoro, Massafiscaglia) principalmente per questioni di natura fiscale e di coscrizione obbligatoria.
In seguito alle sconfitte napoleoniche inflitte dalla seconda coalizione (formata da Austria, Russia e Inghilterra), nel marzo del 1799 gli austriaci giunsero presso il Po. L’avanzata dell’esercito imperiale fu accompagnata dall’insorgere degli abitanti del territorio veneto annessi al Dipartimento del Basso Po (Fiesso, Trecenta, Ficarolo, Massa Superiore). Il 12 aprile, dopo che gran parte del territorio ferrarese (Zocca, Copparo, Migliarino, Ostellato, Portomaggiore) era passato sotto il controllo delle bande di insorgenti sorrette dagli austriaci, fu la volta di Pontelagoscuro da cui venne organizzato l’accerchiamento e il blocco di Ferrara. La città, posta sotto assedio e ridotta allo stremo, si arrese agli austriaci il 22 maggio 1799. Alla resa seguirono le ormai consuete violenze contro i giacobini più in vista, sebbene alcuni funzionari pubblici avessero prontamente preso la fuga, e contro quegli ebrei che maggiormente avevano aderito al governo repubblicano.
CM, 2011
Bibliografia
Valentino Sani, La rivoluzione senza rivoluzione. Potere e società dal tramonto della legazione pontificia alla della Repubblica cisalpina (1787-1797), Milano, FrancoAngeli, 2001; Valentino Sani, Le rivolte antifrancesi nel ferrarese, in Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di Anna Maria Rao, Roma, Carocci Editore, 1999, pp. 195-216.
Il 23 maggio 1799 il generale delle truppe austriache Johann Klenau prendeva possesso di Ferrara dopo la disfatta dei francesi comandati dal generale Lapointe e dei patrioti cisalpini ridotti all’assedio nella Fortezza. Contemporaneamente venivano soppresse le istituzioni repubblicane e istituita la Cesarea Reggenza al posto della Municipalità. Il giorno dopo fu creata la Cesarea Regia Provvisoria Reggenza, magistratura cui spettava il Governo della Provincia (secondo la dicitura legatizia), composta da dodici membri e a capo della quale fu posto il marchese Camillo Bevilacqua. In base a queste disposizioni dal 24 maggio al 1° giugno venivano ristabiliti i confini e le magistrature del territorio ferrarese del periodo pontificio, tutte le leggi repubblicane erano abrogate, venivano arrestati coloro che avevano ricoperto incarichi nel governo cisalpino e ripristinate le discriminazioni a danno degli ebrei, abolite dai francesi nel settembre 1796.
Si trattò tuttavia di una breve restaurazione. Il 18 di Brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone Bonaparte, di ritorno improvviso in Francia dall’Egitto, con un colpo di stato pose fine al Direttorio e di fatto alla Rivoluzione. Promulgata la Costituzione dell’anno VIII alla fine dello stesso anno, Napoleone divenne, a fianco degli altri due consoli Emmanuel-Joseph Sieyès e Roger Ducos, premier consul di questo nuovo assetto politico repubblicano, il Consolato. Da subito, il primo console dimostrò di volere riprendere ad occuparsi delle sorti italiane. Infatti, nel maggio del 1800, Bonaparte intraprese una nuova discesa nella Penisola sconfiggendo l’esercito austriaco a Marengo, il 14 giugno 1800. Già con l’armistizio di Alessandria, firmato il 15 giugno successivo, e soprattutto con la convenzione di Verona (31 luglio 1800), il territorio ferrarese fu spartito in due zone occupate militarmente, lasciando tuttavia la fascia delimitata tra il Po di Volano e il Po di Primaro neutrale sebbene a disposizione dell’esercito francese per l’approvvigionamento dei viveri (art. II). Ferrara rimase sotto l’occupazione austriaca sino al 19 gennaio 1801, quando a seguito delle sconfitte inflitte dai francesi agli imperiali, l’Austria fu costretta alla pace, ponendo di fatto fine alla seconda coalizione. Erano queste le premesse per la firma del Trattato di Lunéville (9 febbraio 1801) in base al quale ritornavano in vigore le clausole del Trattato di Campoformio siglato nell’ottobre 1797, ripristinando, tra le altre, la Repubblica Cisalpina (un articolo apposito affermava ogni rinuncia da parte dell’Austria nei confronti dei territori cisalpini). Ferrara tornava dunque nuovamente organizzata secondo la struttura politico-amministrativa della ristabilita Cisalpina.
Neppure un anno dopo, Bonaparte convocò, in una consulta straordinaria che si tenne a Lione nel corso del gennaio 1802, 454 deputati cisalpini al fine di adottare una nuova costituzione sul modello di quella francese consolare. 27 furono i ferraresi chiamati dal primo console, in gran parte già protagonisti del Triennio, e tre di essi – Carlo Bentivoglio, Leopoldo Cicognara e Giambattista Costabili Containi – si distinsero per l’opposizione alla nomina di Napoleone a presidente. Con la proclamazione il 26 gennaio 1802 della Repubblica italiana, Ferrara rimaneva capoluogo del Dipartimento del Basso Po, come già durante la Cisalpina e come sarebbe stato con la trasformazione della Repubblica in Regno d’Italia. Il nuovo corso napoleonico segnò l’inizio di un accentramento a livello politico-amministrativo fondato sulla nomina dall’alto del personale dirigente. In questo nuovo assetto, emersero a livello centrale alcuni notabili ferraresi: Giambattista Costabili Containi (che sarebbe stato presente all’incoronazione di Napoleone a imperatore dei francesi come rappresentante di Ferrara, il 2 dicembre 1804) sedette nella Consulta di Stato; Leopoldo Cicognara e Giuseppe Compagnoni nel Consiglio legislativo; Carlo Bentivoglio, Giambattista Boldrini e Giuseppe Rangoni nel Corpo legislativo.
Con il passaggio della Repubblica a Regno d’Italia (31 marzo 1805), il Dipartimento del Basso Po, a capo del quale era posto il prefetto, fu suddiviso in tre Distretti: Ferrara, Rovigo e Comacchio, ciascuno sede di Consiglio distrettuale di nomina regia.
Durante il periodo napoleonico fu attuata una serie di provvedimenti destinati a segnare, come altrove, in maniera permanente la storia della città e del territorio: vennero unificati i pesi e le misure, per esigenze d’ordine militare la città fu dotata di illuminazione pubblica notturna (servizio attivo a partire dal 1807) e di un servizio di sicurezza contro gli incendi assicurato dai pompieri (equivalenti ai sapeurs-pompiers istituiti da Napoleone in Francia), cominciarono ad essere stilati registri civili di nascite, matrimoni e morti. Nel campo dell’educazione pubblica si attuò più compiutamente ciò che già durante il Triennio era rimasto a livello progettuale, ovvero un sistema scolastico che puntasse, a livello di istruzione primaria, a garantire a tutti i fanciulli e fanciulle senza distinzioni sociali, l’apprendimento della scrittura, della lettura e dell’aritmetica (sei furono le scuole elementari funzionanti). Tuttavia, diversamente dagli ideali egualitari promulgati dalla Rivoluzione, l’istruzione secondaria di concezione napoleonica mirò soprattutto a promuovere l’educazione delle élite per le quali furono fondati istituti di insegnamento superiore.
Il 26 gennaio 1801 nacque la Camera di Commercio di Ferrara, mentre nella primavera del 1803 fu fondata la Società del Casino, presso il ridotto del Teatro Comunale, associazione simbolo della concordia tra i diversi ceti sociali cittadini, promossa da Carlo Bentivoglio, Girolamo Cicognara, Luigi Massari e Ruggero Ragazzi. La Società del Casino, aperta fin dall’inizio anche alle donne, si propose come un luogo di sociabilità dell’élite ferrarese che offriva ai propri membri occasione di incontro e di svago.
Durante il periodo considerato furono presi provvedimenti per migliorare l’igiene pubblica, come si legge nel Regolamento della Sanità del 14 agosto 1807, soprattutto per lo smaltimento e per la regolamentazione dei comportamenti nella gestione dei rifiuti privati. Inoltre, con il decreto vicereale del 3 gennaio 1811 furono estese a tutto il Regno d’Italia le disposizioni napoleoniche in materia di sepoltura, in base alle quali si stabiliva che i camposanti dovessero essere collocati al di fuori dei centri abitati (Editto di Saint-Cloud, 1804). Tuttavia, a Ferrara, per consentire che la certosa di San Cristoforo, posta all’interno delle mura cittadine, diventasse camposanto, fu necessaria una autorizzazione speciale del viceré Eugenio di Beauharnais (3 giugno 1811). Artefice di questa risoluzione fu il podestà Girolamo Cicognara de’ Romei preoccupato di sensibilizzare a tale questione la cittadinanza (che fu invitata a presiedere alla cerimonia d’apertura il 3 gennaio 1813), e di mediare con il clero, restio a rinunciare per questioni sanitarie alla consuetudine di seppellire i defunti nelle chiese.
Nel campo dell’informazione, dopo un periodo di silenzio della stampa locale successivo alla caduta della Cisalpina, dal 1808 al 1814 fu stampato a Ferrara «presso i Soci Bianchi e Negri», il «Giornale Ferrarese». Periodico a cadenza bisettimanale, esso si proponeva di riportare principalmente notizie riguardanti gli atti delle pubbliche autorità e l’attualità politica interna ed estera. Nelle quattro pagine di cui era composto il «Giornale Ferrarese», non mancava tuttavia una rubrica di «Notizie Dipartimentali», ovvero la cronaca locale, così come un’informazione di carattere scientifico (statistica, medicina, agricoltura, piscicoltura, ecc.).
L’adesione al governo napoleonico a Ferrara non fu tuttavia esente da episodi di insorgenze antifrancesi in parte simili a quelle che si erano verificate nel corso del Triennio giacobino. Dal 9 al 16 luglio 1809, la città fu posta d’assedio da un gruppo di insorgenti provenienti in massima parte dal contado spinti dall’inasprimento del regime fiscale (in particolare la «boleta di macina» o tassa del Macinato) imposto dal ministro delle Finanze Giuseppe Prina, su direttive francesi. La città fu liberata dagli insorgenti grazie al concorso di cittadini volontari e dall’arrivo di soldati francesi e patrioti bolognesi. Alla repressione seguirono gli arresti e le condanne, molte delle quali a morte (fucilazione o ghigliottina).
In seguito alla disfatta francese nella campagna di Russia (cui parteciparono anche dei ferraresi, tra i quali si ricorda Filippo Pisani, ingegnere, autore poi di Memorie sulla sua esperienza come ufficiale d’artiglieria nella Grande Armata condotta da Napoleone in Russia l’anno 1812) e alla sconfitta nella battaglia di Lipsia (16-19 ottobre 1813) che oppose la Grande Armée alla sesta coalizione, si aprì un periodo di instabilità. Le truppe austriache occuparono nuovamente i territori del Basso Po fino a giungere a Ferrara il 13 novembre dello stesso anno dove si impossessarono della Fortezza (qualche giorno dopo fece il suo ingresso in città l’arciduca Massimiliano d’Austria). Nei mesi successivi si alternarono francesi e austriaci nel territorio ferrarese, sino a quando il 28 gennaio 1814 fu proclamato il Regno d’Italia Indipendente che segnava l’inizio del governo provvisorio austriaco su Ferrara, destinato a durare sino alla metà di luglio del 1815.
La chiusura del Congresso di Vienna nel giugno 1815 segnò l’inizio della Restaurazione ovvero del ripristino della situazione politico-territoriale europea precedente al 1789. Ferrara e il Ferrarese, pertanto, subirono il destino comune a tutti quei territori che la Rivoluzione prima e Napoleone in seguito avevano investito in un cambiamento epocale. Il 15 luglio 1815, dunque, essa tornò sotto il governo del papa Pio VII, come Legazione pontificia.
CM, 2011
Bibliografia
Ferrara. Riflessi di una rivoluzione. Itinerari nell’occasione della Mostra per il Bicentenario della Rivoluzione francese, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo Paradiso, 11 novembre - 31 dicembre 1989), a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo Editore, 1989; Valentino Sani, Aspetti e caratteri della società ferrarese dagli anni del riformismo pontificio alla nascita della Repubblica italiana (1740-1802), «Il Risorgimento», LVII, 2, 2005, pp. 211-261.
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