Con il trattato di Tolentino del 19 febbraio 1797, lo Stato della Chiesa cedeva ai francesi il controllo del territorio di Ferrara, in conseguenza delle vittorie napoleoniche nella prima campagna d’Italia della primavera del 1796. Ferrara entrava così a far parte della neonata e filo-francese Repubblica Cispadana, proclamata a Reggio Emilia il 5 gennaio 1797. Nel luglio successivo questa venne unita con la vicina Repubblica Transpadana e le due entità formarono la Repubblica Cisalpina, con capitale Milano, denominata in seguito Repubblica italiana (gennaio 1802 - marzo 1805) e quindi Regno d’Italia (marzo 1805 - aprile 1814).
L’organizzazione amministrativa imposta dai francesi sui territori italiani controllati ricalcò il modello transalpino: in periferia lo Stato veniva ripartito in Dipartimenti, Distretti, Cantoni (a soli fini elettorali) e Comuni. Il territorio ferrarese andò così a costituire il Dipartimento del Basso Po, istituito il 29 marzo 1797 e suddiviso inizialmente in 16 Cantoni. I confini del Dipartimento ferrarese furono instabili: negli anni del Regno d’Italia alcuni Comuni entrarono nel vicino Dipartimento del Mincio, mentre Ferrara acquisì gli attuai territori della provincia di Rovigo, altri furono invece ceduti al Dipartimento dell'Adriatico. Sino alla proclamazione della Repubblica Italiana il Dipartimento era retto dalle cosiddette amministrazioni centrali, composte da cinque membri (successivamente ridotti a tre), rinnovati in parte ogni anno ed eletti dalle assemblee elettorali, a loro volta composte da cittadini scelti sulla base di criteri censitari. A controllare l’operato delle amministrazioni centrali erano posti dei commissari governativi, o commissari del potere esecutivo, nominati dal Direttorio della Cisalpina. Il primo commissario governativo del dipartimento fu l’avvocato ferrarese Giovanni Battista Boldrini, che ricoprì la carica dall’agosto 1797 all’aprile 1799.
Rispetto all’assetto assunto durante gli anni della Repubblica Cisalpina, l’organizzazione amministrativa fu riformata con la promulgazione del decreto vicepresidenziale del 6 maggio 1802, che introduceva ufficialmente anche in Italia, sul modello francese, la figura del prefetto, di nomina governativa, a capo dei Dipartimenti. Con l’istituzione della Prefettura arrivava a compimento quel processo tendente a creare un sistema amministrativo periferico fortemente collegato al centro e sempre più sottratto all’autorità e al controllo delle forze locali. Cinque furono i prefetti che diressero il Dipartimento ferrarese negli anni napoleonici, nessuno di loro nativo della città: Teodoro Somenzari (1802); Pio Magenta (1802-1803); Federico Cavriani (1803-1807); Giovanni Scopoli (1807-1808) e Costantino Zacco (1808-1814). A fianco del prefetto rimase, sino al 1805, l’amministrazione dipartimentale, un istituto che, presente già durante gli anni della Cisalpina – col nome di amministrazione centrale – privava il prefetto dell’esclusività nella gestione amministrativa. Composto, nel caso del Dipartimento del Basso Po, di cinque membri nominati dal governo su una lista doppia di individui proposti dal Consiglio di Prefettura, l’amministrazione dipartimentale gestiva prevalentemente il riparto delle imposte tra i Comuni e ad esso era sottoposto il controllo delle opere pubbliche.
Con la legge del 24 luglio 1802 venne poi completata la sistemazione dell'apparato periferico; si procedette infatti anche alla riorganizzazione dei Comuni, introducendo la distinzione in tre classi definite in base alla consistenza della popolazione. L’organizzazione amministrativa periferica del Regno d’Italia fu ulteriormente modificata con il decreto dell’8 giugno 1805, che apportò cambiamenti soprattutto per quanto riguarda le nomine, che furono tutte accentrate nelle mani del sovrano, fatta eccezione per quelle degli organi dei Comuni di terza classe, ovvero con una popolazione inferiore a 3.000 abitanti, che rimanevano riservate ai prefetti. A questi ultimi, con poteri ulteriormente accresciuti – con il decreto dell’8 giugno 1805 il prefetto divenne infatti il responsabile unico dell’amministrazione dipartimentale – rimase affidata la guida dei dipartimenti, dove erano previsti un Consiglio di Prefettura e un Consiglio generale, organi che nella sostanza nulla potevano nei confronti del potere dei prefetti le cui mansioni erano amplissime, andando dal controllo delle imposte alla sorveglianza degli uffici di finanza, dalle provvidenze per il commercio alla polizia, dall’annona, alla sanità, alle opere pubbliche. Nei Distretti risiedeva invece il viceprefetto, assistito da un Consiglio distrettuale, mentre nei Cantoni doveva essere presente almeno un giudice di pace e, per le materie amministrative e censuarie, un consigliere del censo. Alla testa delle amministrazioni comunali vennero infine introdotte la figura del podestà – nei Comuni di prima o seconda classe, ovvero con popolazione maggiore, rispettivamente, ai 10.000 o ai 3.000 abitanti – e quella del sindaco, nei Comuni di terza classe. L’organo deliberativo del Comune rimase il Consiglio comunale. Nel 1808 la popolazione del Dipartimento ferrarese ammontava a 251.446 anime, di cui 27.032 nel Comune di Ferrara; al Distretto di Ferrara, comprensivo allora di cinque Cantoni, si affiancavano i Distretti di Comacchio, con tre Cantoni, e di Rovigo, con due Cantoni.
Con la Restaurazione il territorio ferrarese tornava a fare parte dello Stato pontificio. La riforma amministrativa introdotta con motu proprio da Pio VII nel luglio 1816 divideva lo Stato della Chiesa in 17 circoscrizioni amministrative, chiamate delegazioni apostoliche, ciascuna avente poteri esecutivi. Le Delegazioni assumevano il nome di Legazioni quando erano governate da un cardinale, come nel caso di Ferrara, che rappresentava una della cinque Delegazioni di prima classe in cui era diviso il territorio pontificio. A capo di ogni Legazione era posto un cardinale (legato) nominato dal papa tramite un provvedimento della Segreteria di Stato. Si ricordi, tra le altre, soprattutto la figura del cardinale Luigi Ciacchi, legato nei turbolenti mesi dal marzo 1847 al luglio del 1848 e successivo segretario di Stato di Pio IX. Il cardinale legato, che aveva compiti politici, amministrativi e giudiziari, era affiancato da due assessori, sempre di nomina papale, con funzioni ausiliarie di natura giudiziaria, l’uno in ambito civile, l’altro in ambito penale. A fianco del legato e degli assessori era inoltre prevista una Congregazione governativa con funzioni esecutive composta, nel caso delle Legazioni di prima classe, da quattro membri, due in rappresentanza del capoluogo e due in rappresentanza del circondario. In ogni Legazione l’amministrazione della giustizia era devoluta a un tribunale di prima istanza per le cause civili e a un tribunale criminale per le cause penali. La Legazione ferrarese era quindi amministrativamente suddivisa nei due Distretti di Ferrara e di Lugo e in undici governi locali. Espressione, in qualche modo, delle comunità locali rimase soltanto il Comune. In base al citato motu proprio di Pio VII gli organi del Comune erano il Consiglio – composto, nel caso del capoluogo di Legazione come Ferrara da 48 membri – e la Magistratura, rappresentata da un capo, col titolo di gonfaloniere e di sei, quattro o due anziani a seconda della grandezza del Comune. Consiglieri, gonfalonieri, anziani e sindaci erano tutti di nomina pontificia.
Il sistema delle Legazioni introdotto da Pio VII fu riformato da Pio IX nel novembre del 1850: le precedenti 17 Delegazioni vennero accorpate in sole quattro grandi Legazioni, cui si aggiungeva Roma e il suo circondario. Il territorio ferrarese confluì così nella cosiddetta Legazione della Romagna, o I Legazione, con capitale Bologna, che riunì le preesistenti Legazioni di Forlì, Ravenna, Bologna e Ferrara appunto. Nel 1858 il nome fu mutato in quello di Legazione delle Romagne, il cui territorio era amministrativamente suddiviso nelle quattro storiche Legazioni – ora “declassate” al rango di semplici Delegazioni – e a loro volta ripartite, come in precedenza, in Distretti – sempre due nel caso ferrarese, Ferrara e Lugo – e in governi locali, dieci nel caso ferrarese. Il nuovo assetto ebbe vita breve: la Legazione delle Romagne costituì infatti, con l’avvento del plebiscito di annessione al Regno di Sardegna del 10-11 marzo 1860, la prima grande perdita territoriale dello Stato pontificio in favore del nascente Regno d’Italia.
Il nuovo Stato italiano recepì nella propria organizzazione amministrativa le preesistenti quattro Legazioni pontificie che costituirono, di fatto, la base territoriale dei nuovi enti locali dell’Italia unita. Ferrara mantenne così il rango di provincia. L’articolazione territoriale e amministrativa successiva all’unificazione suddivideva il territorio in Province, Circondari, Mandamenti e Comuni. La Provincia di Ferrara risultò divisa nei Circondari di Ferrara, Cento e Comacchio, composti dai Mandamenti di Argenta, Copparo, Portomaggiore, Bondeno per il Circondario di Ferrara, di Poggio Renatico, Crevalcore e Finale per il Circondario di Cento, e nel Mandamento di Codigoro per il Circondario di Comacchio. Fulcro e simbolo della presenza del nuovo Stato unitario in periferia rimaneva il prefetto, configurandosi in questo senso una sostanziale continuità con gli ordinamenti e l’organizzazione amministrativa introdotta nel periodo napoleonico. I prefetti erano nominati e trasferiti con decreto reale, su deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata su proposta del ministro dell’Interno. La legge provinciale e comunale del 20 marzo 1865 investiva il prefetto del «potere esecutivo in tutta la provincia»: egli sorvegliava tutti i settori della pubblica amministrazione, poteva fare uso della polizia e richiedere l’intervento della forza. Sino alla riforma elettorale del 1882, la prefettura aveva anche il delicato compito della revisione delle liste elettorali e sotto la sua giurisdizione cadeva in buona parte la scelta del candidato sindaco. Il prefetto presiedeva inoltre la deputazione provinciale – organo che esercitava una funzione di controllo della finanza locale, attraverso l’approvazione dei bilanci preventivi e dei conti consuntivi dei Comuni –, presidenza che perse con la legge di riforma dell’amministrazione provinciale e comunale del febbraio 1889 per assumere quella della giunta provinciale amministrativa. Decisamente vivace la mobilità dei prefetti che si registrò in provincia di Ferrara: ben 25, infatti, furono i prefetti nominati a partire dal marzo del 1861 – l’avvocato modenese Luigi Zini fu il primo – e sino all’inizio del primo conflitto mondiale; nessuno di loro era nativo della città o della provincia. Spesso si trattava di funzionari provenienti da precedenti esperienze prefettizie e il loro mandato a Ferrara rappresentava solo un momento di transito, spesso limitato nel tempo, verso altre sedi del Regno.
IP, 2011
Bibliografia
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Negli anni precedenti l’Unità, la due più significative occasioni elettorali cui la popolazione ferrarese fu chiamata a partecipare furono le votazioni per la Costituente della Repubblica Romana e i plebisciti per l’approvazione dell’annessione della Legazione ferrarese, ormai svincolatasi dal potere pontificio, al Piemonte sabaudo. Fu il 25 gennaio del 1849 che circa 30.000 cittadini ferraresi furono chiamati a scegliere i 14 deputati (sui 200 complessivi da eleggere) con cui il Collegio ferrarese partecipava alla designazione dei propri rappresentanti alla Costituente della Repubblica Romana; tra questi risulteranno eletti lo stesso Giuseppe Mazzini e il ferrarese Carlo Mayr, poi figura di spicco anche della prima stagione postunitaria e nel 1861 deputato nel primo Parlamento del Regno. Per la prima volta le elezioni si effettuarono a suffragio universale diretto maschile: tutti coloro che avevano compiuto 21 anni, risiedevano da almeno un anno nello Stato e godevano dei diritti civili erano elettori; eleggibili tutti i medesimi che avessero compiuto 25 anni. Al suffragio universale maschile si ricorse anche in occasione del plebiscito dell’11 marzo del 1860 con il quale Ferrara – e l’Emilia tutta – approvò l’annessione al Piemonte. Anche in quell’occasione furono ammessi al voto tutti i cittadini maschi che avessero 21 anni di età e che godessero dei diritti civili (le liste furono compilate generalmente sugli “stati delle anime” delle parrocchie) La partecipazione a Ferrara fu assai ampia: votarono infatti 48.999 persone sulle 49.220 aventi diritto. I voti favorevoli furono 48.778, appena 83 i contrari e 138 le schede nulle.
Con la proclamazione del Regno d’Italia i criteri per la partecipazione al voto, attivo e passivo, divennero assai restrittivi, conferendo alla rappresentanza politica dell’Italia liberale un carattere fortemente elitario. Le elezioni dei deputati del primo parlamento nazionale post-unitario – il Senato era di nomina regia – si svolsero il 27 gennaio del 1861. L’elettorato politico venne regolato dalla legge sarda del 17 marzo 1848, n. 680 e dalla legge del 17 dicembre 1860, n. 4513, che ne aveva esteso l’applicazione, con modifiche non sostanziali, ai territori annessi al regno sabaudo con i plebisciti dell’anno precedente. In conformità alla legge sarda, avevano diritto al voto i cittadini italiani maschi, di età non inferiore ai 25 anni, che sapessero leggere e scrivere e che pagassero un censo di imposte indirette non inferiore alle 40 lire. Al voto erano ammessi coloro che, anche non pagando l'imposta stabilita, rientravano in determinate categorie: magistrati, professori, ufficiali. Su una popolazione che contava allora circa ventidue milioni di abitanti, il diritto al voto era riconosciuto ad una élite assai ristretta, pari soltanto all’1,9% della popolazione complessiva. I 443 deputati (508 al momento del completamento dell’Unità nel 1870), distribuiti all’interno di un ugual numero di Collegi uninominali, erano eletti con sistema maggioritario a doppio turno. Si ricorreva al secondo turno quando nessuno dei candidati avesse ottenuto, al primo turno, più di un terzo dei voti rispetto al numero degli iscritti nel Collegio e più di della metà dei suffragi dati dai votanti, esclusi i voti nulli. Nel ballottaggio si votava per uno dei due candidati che avevano riportato più voti al primo turno; era eletto chi riportava la maggioranza semplice, senza altra condizione. Questa normativa elettorale rimase sostanzialmente inalterata per le sette legislature del Regno d'Italia (dalla VIII alla XIV) che si succedettero dal 1861 al 1882. Diversa era la normativa per le elezioni amministrative. Come altrove nel regno, anche per la provincia di Ferrara, il numero di elettori alle elezioni del 1861 risultò dunque assai modesto, appena 2.849 votanti, cui spettava la responsabilità di eleggere i quattro deputati che la provincia poteva designare, suddivisi in altrettanti Collegi uninominali: Ferrara I, Ferrara II, Cento e Comacchio. Alle successive elezioni del 1865 il numero di votanti risultò solo leggermente cresciuto, 3.837 elettori, dei quali il 44% aveva diritto di voto in base al censo, il 19,7% per titoli, il 7,0% in quanto rappresentanti del mondo delle arti, industria e commercio e il 28,5% risultava elettore sulla base dell’imposta di ricchezza mobile pagata. Nei primi anni postunitari, inoltre, alla ristrettezza della base elettorale si affiancò in tutta la penisola un diffuso astensionismo (nelle elezioni del 1861 solo il 57,2% degli elettori si recò alle urne, ma il dato sull’astensionismo rimase, in media, molto significativo almeno per il primo ventennio postunitario). La provincia di Ferrara non faceva, da questo punto di vista, alcuna eccezione, anzi la percentuale dei votanti si collocava ben al di sotto del già magro dato nazionale: i primi quattro deputati inviati al parlamento nell’inverno del 1861 – Francesco Borgatti, P. Conti, Carlo Mayr e Carlo Grillenzoni – furono infatti eletti rispettivamente con soli 259, 190, 277 e 210 consensi, un numero di preferenze che corrispondeva appena al 40,36% degli aventi diritto al voto. La loro provenienza – si trattava di candidati tutti ferraresi – e la loro estrazione sociale – due avvocati, Mayr e Borgatti; un militare di carriera, Conti; un nobile, il conte Grillenzoni – rispecchiavano a pieno la ristrettezza, il localismo e l’elitarismo della vita politica italiana negli anni immediatamente successivi all’Unità. Si trattò inoltre di deputati cosiddetti “ministeriali”, ovvero che in parlamento sostennero e appoggiarono sempre il governo in carica.
Il primo tentativo di ampliare la base elettorale si ebbe nel 1882. Nata da un progetto presentato da Benedetto Cairoli, presidente del Consiglio dal marzo 1878 ed esponente della sinistra storica, la nuova legislazione elettorale prevista dalla legge del 22 gennaio 1882, n. 999, ammise all'elettorato politico tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni e che avessero superato l'esame del corso elementare obbligatorio oppure pagassero una imposta annua diretta di lire 19,80. In tal modo si realizzò un primo allargamento del corpo elettorale che passò da circa 628.000 ad oltre 2.000.000 di elettori, cioè dall’1,9% al 6,9% della popolazione italiana, che contava allora 28.452.000 abitanti. Inoltre, la riforma sostituì il Collegio uninominale con quello plurinominale, modificando anche le circoscrizioni elettorali: il Regno venne infatti suddiviso in 135 Collegi in cui si eleggevano da due e fino a cinque rappresentanti, adottando lo scrutinio di lista. Lo scrutinio di lista era stato introdotto soprattutto per cercare di sottrarre il governo della nazione alla signoria dei piccoli interessi locali e personali. Ma l’esperimento non fu reputato nel complesso soddisfacente e fu abbandonato dopo meno di un decennio: con la legge del 5 maggio 1891, n. 210, si tornò infatti al precedente sistema di Collegi uninominali – 508, pari al numero di deputati complessivi da eleggere – con sistema a doppio turno. A Ferrara, nella breve parentesi rappresentata dall’esperimento del collegio plurinominale con scrutinio di lista, il marcato localismo che aveva caratterizzato la scelta dei candidati da inviare in parlamento sembrò interrompersi in modo solo parziale: sebbene sugli otto candidati eletti – e in alcuni casi rieletti – per la XV, XVI e XVII legislatura cinque non avessero origini ferraresi (Federico Seismit Doda, Severino Sani, Stefano Canzio, Giovanni Bovio, Giorgio Turbiglio), due di loro, Sani e Turbiglio erano certamente ben inseriti nell'architettura del potere locale (Turbiglio, ad esempio, originario di Cuneo ma ferrarese di adozione, per trent’anni fu docente di diritto penale presso l’ateneo cittadino). I tre restanti deputati eletti nelle tornate elettorali sopra citate (Giovanni Gattelli, Cesare Carpeggiani e Adolfo Cavalieri) provenivano invece dal capoluogo o dalla provincia. A prescindere dall’allargamento della base elettorale, ciò che non sembrava mutare era l’estrazione sociale dei candidati: nella maggior parte dei casi, infatti, si trattava ancora una volta di avvocati. In base alla riforma elettorale del 1882, il numero degli iscritti nelle liste elettori della provincia ferrarese registrò comunque un primo significativo incremento ammontando, nell’anno del varo della nuova normativa, a 15.374 elettori, dei quali il 29,7% aveva diritto al voto in base al censo e il 70,3% in base ai titoli. Sino alle elezioni del 1892 la circoscrizione elettorale ferrarese fu denominata “Collegio unico di Ferrara”; successivamente alla reintroduzione del sistema uninominale a doppio turno, i quattro deputati espressi dalla provincia tornarono a provenire da altrettanti, distinti, collegi. Agli “storici” Collegi di Ferrara, Cento e Comacchio si aggiunse, a partire dalle elezioni del 1892, il neo–istituito Collegio di Portomaggiore. Da segnalare, inoltre, che l’allargamento della base elettorale successiva alla riforma del 1882 portò in provincia di Ferrara ad un significativo incremento della percentuale del votanti, circa il 71% degli avanti diritto (percentuale questa volta nettamente più alta della media nazionale, ferma al 60,7%) e che si mantenne sostanzialmente invariata anche nelle successive elezioni del 1886 e del 1890, sancendo il superamento di quel macroscopico astensionismo che aveva caratterizzato, anche a Ferrara, la partecipazione alle elezioni politiche nel primo ventennio postunitario.
Una più significativa cesura, che concludeva una fase importante del dibattito sull’evoluzione del sistema elettorale italiano si ebbe con le leggi le leggi del 30 giugno 1912, n. 666 e 22 giugno 1913, n. 648 – poi raccolte e coordinate nel T.U. 26 giugno 1913, n. 821 con cui il governo Giolitti introdusse in Italia il suffragio quasi universale maschile. La nuova legge, che non ripudiò il principio che la capacità dovesse essere il fondamento dell’elettorato, estendeva il diritto di voto ai cittadini maschi di oltre 30 anni anche se analfabeti e, fra i cittadini maschi dai 21 ai 30 anni, a tutti coloro che sapessero leggere e scrivere o, più in generale, fossero in possesso dei requisiti stabiliti dalle leggi precedenti, nonché a coloro che avessero prestato servizio militare per un certo periodo. Per garantire meglio la libertà e la sincerità del voto contro ogni possibile violenza, corruzione o frode venne introdotta anche la cosiddetta “busta di stato”, una busta di tipo unico nella quale l’elettore doveva introdurre la scheda. Gli elettori passarono così dall’8,3% – elezioni del 1909 – al 23,2% della popolazione. Non si attuò invece la revisione dei Collegi elettorali in base ai censimenti delle popolazione e la Camera respinse, a grande maggioranza con votazione per appello nominale, la concessione del voto alle donne. Alle prime elezioni con il suffragio quasi universale maschile del novembre del 1913 (la nuova normativa fu in realtà impiegata soltanto alle elezioni politiche del 1913) il numero degli aventi diritto al voto per la provincia di Ferrara salì così a 72.466, e ben 53.028 si recarono alle urne, pari al 73,18% degli aventi diritto. La partecipazione più alta al voto si ebbe nei Collegi di Ferrara, con il 77%, e di Comacchio, con 78%. A Ferrara, le prime elezioni con il suffragio quasi universale rappresentarono soprattutto il definitivo avanzamento del partito socialista italiano, che già nelle precedenti elezioni del 1909 aveva conquistato due seggi, Comacchio e Portomaggiore (il primo candidato del partito socialista a conquistare un seggio nella circoscrizione elettorale ferrarese fu Enrico Ferri, vincitore nel Collegio di Portomaggiore alle elezioni del 1904). Nel 1913, l’ascesa delle forze socialiste era completata: se nel Collegio cittadino la vittoria andava all’avvocato ferrarese, nonché marchese, Ercole Mosti Trotti, gli altri tre seggi erano tutti appannaggio dei rappresentanti del PSI: l’avvocato Mario Cavallari si assicurava il Collegio di Portomaggiore (già conquistato nelle elezioni del 1909), il pubblicista Guido Marangoni quello di Comacchio (anch’esso già acquisito nelle elezioni del 1909) e il medico Armando Bussi prevaleva in quello di Cento.
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Bibliografia
Prosdocimo Benini, I deputati della Repubblica Romana. I rappresentanti del Popolo. Il Plebiscito. I Senatori. I Collegi politici della Provincia di Ferrara (dal 1848 al 1913): cenni storico-statistici, Portomaggiore, Tipografia Sociale, 1914; Pierluigi Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’Unità al fascismo, Bologna, il Mulino, 1988; L’Emilia Romagna in Parlamento (1861-1919), a cura di Maria Serena Piretti, Giovanni Guidi, Bologna, Centro Ricerche di Storia politica, 1992 (vol. I: Collegi, elezioni, comportamento parlamentare; vol. II: Dizionario dei deputati); Maria Serena Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1995; Amerigo Baruffaldi, Giorgio Turbiglio: penalista e deputato liberale di Ferrara e di Cento in età post-unitaria (1844-1918), Cento (Ferrara), Comune di Cnto, 2011.
Nel marzo del 1796, l’esercito francese, guidato dal generale Napoleone Bonaparte, mosse per ordine del Direttorio verso la penisola italiana con l’intento di indebolire da sud l’Impero asburgico allora in guerra contro la Francia rivoluzionaria. Dopo essere passato vittorioso in territorio Sabaudo, dove il 28 aprile firmò l’armistizio di Cherasco con Vittorio Amedeo III di Savoia (ratificato nel maggio successivo con la pace di Parigi che stabiliva il passaggio della Savoia e di Nizza, territori sabaudi, alla Francia), il 15 maggio Bonaparte fece il suo ingresso trionfale a Milano accolto dal grido di «libertà per gli Italiani!». L’esercito francese continuò la propria marcia verso i territori posti a sud della Lombardia, occupando quelli del Ducato di Modena e Reggio e le Legazioni pontificie di Bologna, Ferrara e della Romagna.
A Ferrara la notizia dell’avanzata francese e il timore di una possibile invasione cominciarono a diffondersi all’inizio di maggio. Il cardinale legato Francesco Pignatelli dispose una serie di provvedimenti atti, in caso di emergenza, ad assicurare la difesa del territorio ferrarese nei punti più esposti: il forte di Stellata e il porto di Pontelagoscuro. Tuttavia, quando l’arrivo dell’Armée d’Italie presso Ferrara si fece sempre più probabile, il legato pontificio diede ordine di non opporre alcuna resistenza. Il 19 giugno una divisione dell’armata francese invadeva Bologna che fu dichiarata «conquista» della Repubblica francese. Il giorno successivo Bonaparte giungeva nella città felsinea affidando al Senato, previo giuramento di fedeltà alla Francia, il potere legislativo e il governo dell’ex Legazione pontificia. Tra il 20 e il 21 giugno, un ufficiale dell’Armata francese arrivava a Ferrara con l’invito perentorio rivolto alle autorità locali, il cardinale legato Pignatelli, il comandante della Fortezza Giulio Mancinforte, il giudice dei Savi Pietro Luigi Todeschi, di recarsi immediatamente a Bologna per incontrare il generale corso. I primi due furono trattenuti come prigionieri di guerra, mentre Todeschi poté fare ritorno il 21 giugno stesso a Ferrara con l’ordine di convocare per l’indomani il Consiglio Centumvirale (assemblea rappresentativa cittadina istituita da Clemente VIII nel 1598) affinché prestasse il giuramento di fedeltà alla Repubblica francese, e di provvedere all’acquartieramento in città delle truppe. L’avvicendamento politico avvenne, come già a Bologna, senza incontrare opposizioni. La milizia pontificia depose le armi e il 22 giugno si procedette al passaggio formale di Ferrara sotto il nuovo governo: furono rimossi gli stemmi papali dai principali edifici pubblici ed ecclesiastici, sostituiti con quelli della Repubblica francese (simboleggiata da una donna che con una mano teneva una picca sormontata da un berretto frigio, e con l’altra un fascio di verghe con infissa un’ascia) e si procedette al giuramento.
In città non si verificò nessun incidente neppure quando il 23 giugno, in seguito alla firma dell’armistizio siglato tra la Francia e il Papato, fecero il loro ingresso le sparute truppe francesi (circa un migliaio di uomini) poste sotto il comando del generale Jean Gilles André Robert. I soldati d’Oltralpe fraternizzarono facilmente con i simpatizzanti locali: studenti universitari, esponenti della nobiltà antipapale e del ceto medio in ascesa, e la comunità ebraica ferrarese per la quale i cancelli del ghetto rimasero aperti. Con l’arrivo dei francesi cessava dopo 198 anni il governo pontificio su Ferrara che dal 1598 era passata per diritto di devoluzione da capitale del Ducato estense a legazione dello Stato della Chiesa.
Tra i primi provvedimenti attuati dai francesi vi fu la creazione della Guardia Nazionale volontaria, su modello della milizia cittadina del 1789, cui aderirono soprattutto i giovani ferraresi in particolare studenti universitari. La formazione di una guardia civica, il cui scopo era di garantire l’ordine pubblico e la difesa della città, risultò tanto più determinante quando, per rispondere all’offensiva austriaca, i soldati francesi dovettero lasciare Ferrara per raggiungere il Veronese da dove gli austriaci stavano sferrando una controffensiva.
In un primo tempo, su espressa volontà di Bonaparte, furono conservate le precedenti strutture politico-istituzionali ferraresi al fine di assecondare le ambizioni delle élite locali a riappropriarsi di un ruolo dirigenziale, così spesso soffocato dal governo pontificio, nella gestione della cosa pubblica. Tuttavia, dopo i vani tentativi da parte del Papato di rimpossessarsi dell’ex Legazione durante il mese di agosto, tentativi accompagnati dalle insorgenze di Lugo e Cento, all’inizio di ottobre Ferrara assunse un nuovo assetto amministrativo che rappresentò un punto di rottura e una svolta rispetto al recente passato pontificio. Abolito il Consiglio Centumvirale, fu istituita al suo posto l’Amministrazione Centrale del Ferrarese, organismo rappresentativo le cui competenze si estendevano su tutta la provincia, e i cui membri, nominati direttamente da Christophe Saliceti, commissario del Direttorio presso l'Armée d'Italie, segnarono l’affermazione nella gestione del potere di un nuovo ceto patriota prevalentemente borghese che aveva cominciato ad emergere con istanze civili innovatrici già durante l’ultimo periodo pontificio. Tra le prime disposizioni previste dall’Amministrazione Centrale del Ferrarese figuravano lo smantellamento dei privilegi e immunità del clero (come l’abolizione del tribunale dell’Inquisizione e dell’asilo ecclesiastico dei rei) e la concessione della libertà di stampa.
Dal 16 al 18 ottobre Napoleone convocò a Modena i rappresentanti dei governi provvisori delle repubbliche di Reggio, Modena, Ferrara e Bologna, ponendo le basi per la creazione della Repubblica Cispadana che sarebbe stata proclamata a Reggio alla fine di dicembre. Nei giorni seguenti (dal 19 al 22) Bonaparte stesso soggiornò a Ferrara: alla sua presenza fu innalzata in cima alla colonna di piazza Nuova, ora Ariostea, la Statua della Libertà (identica all’icona della Repubblica francese), eretta al posto di quella bronzea di papa Alessandro VII, distrutta poco dopo l’arrivo in città dei francesi. Nei congressi che si tennero in successione a Reggio Emilia e a Modena tra fine dicembre e inizio marzo 1797, durante i quali si discussero gli articoli della costituzione della Cispadana, parteciparono 30 deputati ferraresi eletti a suffragio universale maschile (secondo un meccanismo di voto articolato in tre turni di consultazioni), tra i quali emerse, per levatura intellettuale e isolata fede democratica, il giurista Giuseppe Compagnoni, docente della prima cattedra di diritto costituzionale d’Europa nonché segretario dell’Amministrazione Centrale del Ferrarese.
La costituzione cispadana, in base alla quale Ferrara diventava capoluogo del Dipartimento del Po, fu ratificata nel marzo 1797 per mezzo di un referendum che ne sancì per maggioranza l’accettazione. Tuttavia, proprio nel cantone di Ferrara, dove si registrò una fortissima astensione degli aventi diritto al voto, la carta costituzionale fu respinta. Come sarebbe successo di lì a poco con le elezioni per le municipalità, i giudici di pace e gli elettori dei rappresentanti del corpo legislativo cispadano, i patrioti repubblicani ferraresi dovettero fare i conti molto presto con una coalizione del clero e dell’aristocrazia reazionaria capace di pilotare a proprio vantaggio soprattutto il mondo contadino. La consultazione elettorale, infatti, premiò (sebbene con molti brogli inutilmente denunciati) la compagine composta da preti, aristocratici e conservatori, spingendo così i patrioti ferraresi delusi ad appoggiare il progetto che Bonaparte stava configurando con i preliminari di Leoben (17 aprile 1797) di una grande repubblica del nord d’Italia.
Con la creazione, il 29 giugno del 1797, della Repubblica Cisalpina, Ferrara, e dunque tutta la Cispadana, entrava a fare parte della nuova “repubblica sorella” che accorpava in un’unica entità statuale anche il territorio dell’ex repubblica lombarda. Grazie ad un’efficace attività “diplomatica”, alcuni membri dell’élite ferrarese andarono ad occupare posizioni di rilievo nella nuova ridefinizione politica dell’Italia settentrionale: Giambattista Costabili Containi fu nominato da Bonaparte stesso quinto membro del Direttorio Cisalpino, Giuseppe Rangoni, segretario dell’ambasciatore a Parigi della nuova repubblica, Giambattista Boldrini, già deputato ai congressi cispadani e di noti sentimenti anticlericali che gli valsero l’epiteto di «Robespierre di Ferrara», divenne commissario del potere esecutivo del Dipartimento del Basso Po. Con queste nomine Bonaparte intendeva dunque gratificare l’appoggio fornito dai patrioti ferraresi al progetto di unificazione dell’Italia settentrionale, che tanto era stato osteggiato da un radicato spirito municipalistico e soprattutto dai bolognesi per nulla inclini a perdere l’egemonia raggiunta con la Cispadana. In conformità all’organizzazione del territorio stabilito dalla costituzione, parte di Ferrara e del Ferrarese confluì nel Dipartimento del Basso Po, frammentandosi una parte del territorio storico in altri dipartimenti stabiliti a partire dalla rete idrografica padana.
A livello locale, il periodo della Cisalpina fu contraddistinto fin dall’inizio da continui contrasti che opposero al Direttorio di Milano alcune Municipalità (come Ferrara, Codigoro, Massafiscaglia) principalmente per questioni di natura fiscale e di coscrizione obbligatoria.
In seguito alle sconfitte napoleoniche inflitte dalla seconda coalizione (formata da Austria, Russia e Inghilterra), nel marzo del 1799 gli austriaci giunsero presso il Po. L’avanzata dell’esercito imperiale fu accompagnata dall’insorgere degli abitanti del territorio veneto annessi al Dipartimento del Basso Po (Fiesso, Trecenta, Ficarolo, Massa Superiore). Il 12 aprile, dopo che gran parte del territorio ferrarese (Zocca, Copparo, Migliarino, Ostellato, Portomaggiore) era passato sotto il controllo delle bande di insorgenti sorrette dagli austriaci, fu la volta di Pontelagoscuro da cui venne organizzato l’accerchiamento e il blocco di Ferrara. La città, posta sotto assedio e ridotta allo stremo, si arrese agli austriaci il 22 maggio 1799. Alla resa seguirono le ormai consuete violenze contro i giacobini più in vista, sebbene alcuni funzionari pubblici avessero prontamente preso la fuga, e contro quegli ebrei che maggiormente avevano aderito al governo repubblicano.
CM, 2011
Bibliografia
Valentino Sani, La rivoluzione senza rivoluzione. Potere e società dal tramonto della legazione pontificia alla della Repubblica cisalpina (1787-1797), Milano, FrancoAngeli, 2001; Valentino Sani, Le rivolte antifrancesi nel ferrarese, in Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di Anna Maria Rao, Roma, Carocci Editore, 1999, pp. 195-216.
Il 23 maggio 1799 il generale delle truppe austriache Johann Klenau prendeva possesso di Ferrara dopo la disfatta dei francesi comandati dal generale Lapointe e dei patrioti cisalpini ridotti all’assedio nella Fortezza. Contemporaneamente venivano soppresse le istituzioni repubblicane e istituita la Cesarea Reggenza al posto della Municipalità. Il giorno dopo fu creata la Cesarea Regia Provvisoria Reggenza, magistratura cui spettava il Governo della Provincia (secondo la dicitura legatizia), composta da dodici membri e a capo della quale fu posto il marchese Camillo Bevilacqua. In base a queste disposizioni dal 24 maggio al 1° giugno venivano ristabiliti i confini e le magistrature del territorio ferrarese del periodo pontificio, tutte le leggi repubblicane erano abrogate, venivano arrestati coloro che avevano ricoperto incarichi nel governo cisalpino e ripristinate le discriminazioni a danno degli ebrei, abolite dai francesi nel settembre 1796.
Si trattò tuttavia di una breve restaurazione. Il 18 di Brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone Bonaparte, di ritorno improvviso in Francia dall’Egitto, con un colpo di stato pose fine al Direttorio e di fatto alla Rivoluzione. Promulgata la Costituzione dell’anno VIII alla fine dello stesso anno, Napoleone divenne, a fianco degli altri due consoli Emmanuel-Joseph Sieyès e Roger Ducos, premier consul di questo nuovo assetto politico repubblicano, il Consolato. Da subito, il primo console dimostrò di volere riprendere ad occuparsi delle sorti italiane. Infatti, nel maggio del 1800, Bonaparte intraprese una nuova discesa nella Penisola sconfiggendo l’esercito austriaco a Marengo, il 14 giugno 1800. Già con l’armistizio di Alessandria, firmato il 15 giugno successivo, e soprattutto con la convenzione di Verona (31 luglio 1800), il territorio ferrarese fu spartito in due zone occupate militarmente, lasciando tuttavia la fascia delimitata tra il Po di Volano e il Po di Primaro neutrale sebbene a disposizione dell’esercito francese per l’approvvigionamento dei viveri (art. II). Ferrara rimase sotto l’occupazione austriaca sino al 19 gennaio 1801, quando a seguito delle sconfitte inflitte dai francesi agli imperiali, l’Austria fu costretta alla pace, ponendo di fatto fine alla seconda coalizione. Erano queste le premesse per la firma del Trattato di Lunéville (9 febbraio 1801) in base al quale ritornavano in vigore le clausole del Trattato di Campoformio siglato nell’ottobre 1797, ripristinando, tra le altre, la Repubblica Cisalpina (un articolo apposito affermava ogni rinuncia da parte dell’Austria nei confronti dei territori cisalpini). Ferrara tornava dunque nuovamente organizzata secondo la struttura politico-amministrativa della ristabilita Cisalpina.
Neppure un anno dopo, Bonaparte convocò, in una consulta straordinaria che si tenne a Lione nel corso del gennaio 1802, 454 deputati cisalpini al fine di adottare una nuova costituzione sul modello di quella francese consolare. 27 furono i ferraresi chiamati dal primo console, in gran parte già protagonisti del Triennio, e tre di essi – Carlo Bentivoglio, Leopoldo Cicognara e Giambattista Costabili Containi – si distinsero per l’opposizione alla nomina di Napoleone a presidente. Con la proclamazione il 26 gennaio 1802 della Repubblica italiana, Ferrara rimaneva capoluogo del Dipartimento del Basso Po, come già durante la Cisalpina e come sarebbe stato con la trasformazione della Repubblica in Regno d’Italia. Il nuovo corso napoleonico segnò l’inizio di un accentramento a livello politico-amministrativo fondato sulla nomina dall’alto del personale dirigente. In questo nuovo assetto, emersero a livello centrale alcuni notabili ferraresi: Giambattista Costabili Containi (che sarebbe stato presente all’incoronazione di Napoleone a imperatore dei francesi come rappresentante di Ferrara, il 2 dicembre 1804) sedette nella Consulta di Stato; Leopoldo Cicognara e Giuseppe Compagnoni nel Consiglio legislativo; Carlo Bentivoglio, Giambattista Boldrini e Giuseppe Rangoni nel Corpo legislativo.
Con il passaggio della Repubblica a Regno d’Italia (31 marzo 1805), il Dipartimento del Basso Po, a capo del quale era posto il prefetto, fu suddiviso in tre Distretti: Ferrara, Rovigo e Comacchio, ciascuno sede di Consiglio distrettuale di nomina regia.
Durante il periodo napoleonico fu attuata una serie di provvedimenti destinati a segnare, come altrove, in maniera permanente la storia della città e del territorio: vennero unificati i pesi e le misure, per esigenze d’ordine militare la città fu dotata di illuminazione pubblica notturna (servizio attivo a partire dal 1807) e di un servizio di sicurezza contro gli incendi assicurato dai pompieri (equivalenti ai sapeurs-pompiers istituiti da Napoleone in Francia), cominciarono ad essere stilati registri civili di nascite, matrimoni e morti. Nel campo dell’educazione pubblica si attuò più compiutamente ciò che già durante il Triennio era rimasto a livello progettuale, ovvero un sistema scolastico che puntasse, a livello di istruzione primaria, a garantire a tutti i fanciulli e fanciulle senza distinzioni sociali, l’apprendimento della scrittura, della lettura e dell’aritmetica (sei furono le scuole elementari funzionanti). Tuttavia, diversamente dagli ideali egualitari promulgati dalla Rivoluzione, l’istruzione secondaria di concezione napoleonica mirò soprattutto a promuovere l’educazione delle élite per le quali furono fondati istituti di insegnamento superiore.
Il 26 gennaio 1801 nacque la Camera di Commercio di Ferrara, mentre nella primavera del 1803 fu fondata la Società del Casino, presso il ridotto del Teatro Comunale, associazione simbolo della concordia tra i diversi ceti sociali cittadini, promossa da Carlo Bentivoglio, Girolamo Cicognara, Luigi Massari e Ruggero Ragazzi. La Società del Casino, aperta fin dall’inizio anche alle donne, si propose come un luogo di sociabilità dell’élite ferrarese che offriva ai propri membri occasione di incontro e di svago.
Durante il periodo considerato furono presi provvedimenti per migliorare l’igiene pubblica, come si legge nel Regolamento della Sanità del 14 agosto 1807, soprattutto per lo smaltimento e per la regolamentazione dei comportamenti nella gestione dei rifiuti privati. Inoltre, con il decreto vicereale del 3 gennaio 1811 furono estese a tutto il Regno d’Italia le disposizioni napoleoniche in materia di sepoltura, in base alle quali si stabiliva che i camposanti dovessero essere collocati al di fuori dei centri abitati (Editto di Saint-Cloud, 1804). Tuttavia, a Ferrara, per consentire che la certosa di San Cristoforo, posta all’interno delle mura cittadine, diventasse camposanto, fu necessaria una autorizzazione speciale del viceré Eugenio di Beauharnais (3 giugno 1811). Artefice di questa risoluzione fu il podestà Girolamo Cicognara de’ Romei preoccupato di sensibilizzare a tale questione la cittadinanza (che fu invitata a presiedere alla cerimonia d’apertura il 3 gennaio 1813), e di mediare con il clero, restio a rinunciare per questioni sanitarie alla consuetudine di seppellire i defunti nelle chiese.
Nel campo dell’informazione, dopo un periodo di silenzio della stampa locale successivo alla caduta della Cisalpina, dal 1808 al 1814 fu stampato a Ferrara «presso i Soci Bianchi e Negri», il «Giornale Ferrarese». Periodico a cadenza bisettimanale, esso si proponeva di riportare principalmente notizie riguardanti gli atti delle pubbliche autorità e l’attualità politica interna ed estera. Nelle quattro pagine di cui era composto il «Giornale Ferrarese», non mancava tuttavia una rubrica di «Notizie Dipartimentali», ovvero la cronaca locale, così come un’informazione di carattere scientifico (statistica, medicina, agricoltura, piscicoltura, ecc.).
L’adesione al governo napoleonico a Ferrara non fu tuttavia esente da episodi di insorgenze antifrancesi in parte simili a quelle che si erano verificate nel corso del Triennio giacobino. Dal 9 al 16 luglio 1809, la città fu posta d’assedio da un gruppo di insorgenti provenienti in massima parte dal contado spinti dall’inasprimento del regime fiscale (in particolare la «boleta di macina» o tassa del Macinato) imposto dal ministro delle Finanze Giuseppe Prina, su direttive francesi. La città fu liberata dagli insorgenti grazie al concorso di cittadini volontari e dall’arrivo di soldati francesi e patrioti bolognesi. Alla repressione seguirono gli arresti e le condanne, molte delle quali a morte (fucilazione o ghigliottina).
In seguito alla disfatta francese nella campagna di Russia (cui parteciparono anche dei ferraresi, tra i quali si ricorda Filippo Pisani, ingegnere, autore poi di Memorie sulla sua esperienza come ufficiale d’artiglieria nella Grande Armata condotta da Napoleone in Russia l’anno 1812) e alla sconfitta nella battaglia di Lipsia (16-19 ottobre 1813) che oppose la Grande Armée alla sesta coalizione, si aprì un periodo di instabilità. Le truppe austriache occuparono nuovamente i territori del Basso Po fino a giungere a Ferrara il 13 novembre dello stesso anno dove si impossessarono della Fortezza (qualche giorno dopo fece il suo ingresso in città l’arciduca Massimiliano d’Austria). Nei mesi successivi si alternarono francesi e austriaci nel territorio ferrarese, sino a quando il 28 gennaio 1814 fu proclamato il Regno d’Italia Indipendente che segnava l’inizio del governo provvisorio austriaco su Ferrara, destinato a durare sino alla metà di luglio del 1815.
La chiusura del Congresso di Vienna nel giugno 1815 segnò l’inizio della Restaurazione ovvero del ripristino della situazione politico-territoriale europea precedente al 1789. Ferrara e il Ferrarese, pertanto, subirono il destino comune a tutti quei territori che la Rivoluzione prima e Napoleone in seguito avevano investito in un cambiamento epocale. Il 15 luglio 1815, dunque, essa tornò sotto il governo del papa Pio VII, come Legazione pontificia.
CM, 2011
Bibliografia
Ferrara. Riflessi di una rivoluzione. Itinerari nell’occasione della Mostra per il Bicentenario della Rivoluzione francese, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo Paradiso, 11 novembre - 31 dicembre 1989), a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo Editore, 1989; Valentino Sani, Aspetti e caratteri della società ferrarese dagli anni del riformismo pontificio alla nascita della Repubblica italiana (1740-1802), «Il Risorgimento», LVII, 2, 2005, pp. 211-261.
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