Tra i diversi problemi che impegnarono lo Stato italiano dopo l’Unità, la questione sanitaria fu particolarmente impegnativa a causa della coesistenza di realtà locali diverse che sarebbero dovute confluire in un unico organismo nazionale. Il problema appariva particolarmente complesso perché il nuovo Stato doveva anche affrontare la sfida imposta dall’adeguamento all’evoluzione della società europea. Il concetto di autorità politica era stato, infatti, ampiamente modificato dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese che avevano trasformato il detentore dell’autorità nel depositario di una delega da parte del popolo sovrano, mentre il diritto divino al potere stava perdendo sempre più di forza e di credibilità. L’assistenza sanitaria, perciò, non poteva più essere un semplice dovere caritativo verso il bisognoso, ma un preciso impegno del governo teso al miglioramento generale della vita del popolo.
Nell’età di passaggio tra Otto e Novecento, anche nella provincia di Ferrara si assisteva così a un importante sforzo per costruire edifici e servizi pubblici che gradualmente avrebbero ristretto il divario tra il centro e la periferia.
L’istituzione dell’ospedale civile di Bondeno fornisce un ottimo esempio, su scala locale, di un aspetto fondamentale della storia dell’assistenza nosocomiale italiana, imperniata sulla trasformazione dell’ospedale da luogo di ricovero indifferenziato a spazio destinato al recupero della salute. Il passaggio da una funzione all’altra richiedeva che fosse superato il concetto di ospedale come struttura sostenuta dalla beneficenza dei ricchi e riservata alla cura dei soli malati poveri, per proporre un servizio sanitario sempre più distinto dall’assistenzialismo e più aderente ai nuovi indirizzi della scienza. Grazie a due successivi lasciti, quella del senatore Giuseppe Borselli, nel 1887, che donava al Comune la sua villa perché fosse trasformata in ospedale, e quella, nel 1893, di Giovanni Bottazzi, il Municipio di Bondeno si trovò ad amministrare ingenti patrimoni che determinarono la nascita della “Casa di Riposo Bottazzi” nel 1904 e dell’ospedale “Fratelli Borselli” nel 1913. In base allo statuto dell’ospizio, i ricoverati dovevano essere autosufficienti. Gli anziani erano, infatti, coinvolti in lavori adatti all’età e al loro stato fisico e intellettuale; potevano inoltre beneficiare di parte dei proventi del lavoro eseguito. Il rimanente serviva a coprire le spese di manutenzione e gestione della struttura.
Storicamente, la maggior parte degli ospedali del territorio ferrarese sorgeva lungo le più importanti vie di comunicazione del tempo: il Po e i suoi canali. Il loro compito, grazie alla beneficenza da cui dipendevano, era rispondere alle necessità dei bisognosi, ma anche dei pellegrini che transitavano in quelle zone. Le strutture destinate agli ammorbati, erano, invece, pubbliche e funzionavano soltanto in caso di epidemie.
A Comacchio, l’ospedale per infermi, attivo solo nel 1814, fu costruito, sotto il governo pontificio, a partire dal 1784. In precedenza, dal Medioevo al 1641, era esistito un altro luogo di assistenza e cura di pertinenza del vescovo pro tempore. Nell’intervallo di oltre un secolo e mezzo, altre istituzioni, come le Confraternite, il Monte di Pietà e la Ca’ di Dio di Ferrara avevano riempito lo spazio occupato in seguito dal San Camillo, una struttura moderna, rispetto ai tempi, con due infermerie, una camera d’ostetricia e una sala anatomica. Nonostante la città di Comacchio fosse sempre stata gelosa di una certa civica autonomia gestionale dell’ospedale (l’edificio era di proprietà comunale e i suoi finanziamenti provenivano per la maggior parte da quote di redditi delle valli), è possibile notare la permanenza dell’originaria commistione della funzione assistenziale con quella di beneficenza anche nella presenza, fino al 1970, delle Suore della Carità di San Vincenzo De Paoli, iniziata nel 1857.
Anche a Codigoro e Mezzogoro furono attive istituzioni assistenziali dipendenti dall’abbazia di Pomposa, ma fu solo nel 1876 che il Comune si dotò di un vero e proprio luogo di cura e ricovero. L’ospedale fu una risposta all’urgenza determinata dalla rotta del Po a Guarda nel 1872, quando le acque alluvionali giunsero a Mezzogoro e fecero prendere coscienza che Codigoro si trovava al centro di un comprensorio che aveva bisogno di servizi sanitari. Nel 1876, la Congregazione di Carità acquistò la seicentesca casa Minardi, ex tintoria di lane, che fu adibita a infermeria. L’impegno di medici e addetti rese presto riduttiva la ragione di “Opera Pia Infermeria” e già nel 1900 la struttura fu trasformata in un vero ospedale capace di richiamare pazienti, oltre che dal Comune, dall’intero comprensorio (Lagosanto, Massafiscaglia, Migliarino, Mesola, Jolanda, Ostellato e Berra). La peculiarità dell’ospedale di Codigoro è il suo legame diretto col Po. Ed è proprio attraverso il grande fiume, in battana, che spesso vi si trasportavano i malati da altri luoghi rivieraschi.
L’“Ospedale Mandamentale San Giuseppe” di Copparo fu inaugurato nel 1901. Gestito dalla Congregazione di Carità fino al 1910, la sua amministrazione passò in seguito, insieme alla manutenzione, al Comune. Le cronache del tempo registravano la presenza di un padiglione per le malattie infettive, di un’ampia sala operatoria e la dotazione di strumenti per raggi Roentgen.
L’ospedale “Carlo Eppi” di Portomaggiore sorse nel 1882 nella sede provvisoria dell’ex convento di San Francesco. Era dotato in origine di quattro letti che divennero dieci l’anno successivo. Il fondatore Carlo Eppi, ricco possidente portuense trasferitosi a Ferrara, era deceduto nel 1868 lasciando i propri beni all’Opera Pia affinché le rendite ricavate portassero alla costruzione di una casa di beneficenza per infermi, inabili e poveri. L’ospedale nacque ex-novo, senza legami con le precedenti istituzioni: il cinquecentesco Spedale di San Salvatore e il lazzaretto ottocentesco per colerosi. A soli tre anni dalla fondazione, i letti aumentarono a cinquanta e si profilò l’esigenza di una nuova sede. La credibilità acquisita nella cura dell’epidemia di tifo del 1892 permise di accelerare la realizzazione del ricovero annesso che costituiva il secondo punto delle volontà del testatore.
Sin dal Cinquecento, la storia di Argenta registra la presenza di servizi ospedalieri. Nel 1866, il Comune acquistò l’ex convento dei Cappuccini, soppresso dal governo italiano, per adibirlo a ospedale civile e ricovero per gli indigenti. Nel 1888, il patriota mazziniano Giuseppe Vandini destinò il suo patrimonio per la costruzione di un nuovo nosocomio che prenderà il nome di “Mazzolani-Vandini”, ma che sarà funzionante solamente dal 1939.
La storia amministrativa dell’ospedale civile di Cento fu caratterizzata, invece, dalla commistione di giurisdizione vescovile bolognese e politica ferrarese. Le origini dell’istituto risalgono al 1312, quando una bolla del vescovo di Bologna esortò i centesi a concorrere per la costruzione di un ricovero. Nei secoli si rafforzò il carattere “civile” e municipale dell’ospedale che incontrò sempre serie difficoltà economiche. La Restaurazione dovette fare i conti con una situazione debitoria aggravata dalle successive emergenze coleriche del 1835 e 1855 cui, dopo l’Unità nazionale, seguì una nuova amministrazione affidata alla Congregazione di Carità. La vita dell’istituto continuò, tuttavia, a essere grama a causa della povertà delle risorse, delle epidemie ricorrenti e delle gelate che, in inverno, colpivano il territorio.
Infine, le origini e lo sviluppo dell’ospedale di Ferrara, grazie anche al suo legame con l’Università, resero il nosocomio cittadino la cartina di tornasole dei rapporti tra scienza e medicina, non solo a livello locale, ma anche nazionale. Fondato nel 1444 per espresso volere di papa Eugenio IV, fu eretto nella vasta area della contrada di San Guglielmo, nei pressi della porta dei Leoni del Castello Estense e sulla sponda del canale di circonvallazione (ora corso della Giovecca), dove un tempo sorgeva l’antico monastero dei Padri Armeni che lasciarono un grande fabbricato con annesso oratorio e un grande terreno che si estendeva dal borgo San Leonardo (ora via Borgo dei Leoni) al borgo San Guglielmo (via Palestro). L’ospedale veniva così a trovarsi contemporaneamente fuori della città ma nei suoi pressi, fino a che l’addizione di Ercole I d’Este (1492) lo incluse tra le mura. Secondo le intenzioni del pontefice, la struttura doveva offrire salubrità di posizione, facilità di accesso e possibilità di estensione, ma fu solo alla fine del Settecento che la sua funzione di ricovero indifferenziato, allora ancora dominante, fu superata con la separazione tra malati e poveri. Gli sviluppi successivi della scienza medica e il collegamento tra l’insegnamento della medicina e la pratica nosocomiale non poterono non tradursi in un ripensamento della struttura ospedaliera secondo i criteri della modernità che imponeva una maggior igiene e il raggruppamento dei degenti in base alla malattia.
Tuttavia, ancora agli inizi del Novecento, la “scienza” era, dai più, considerata inavvicinabile, perché ritenuta patrimonio dei ceti abbienti. Continuava, perciò, parallelamente a proliferare la cosiddetta medicina “altra”, fatta di pratiche medico-popolari e influenzata dalla persistenza del pensiero magico-tradizionale, che trovava espressione nella fitoterapia, negli usi demoiatrici, in formule e “segnature”, ma soprattutto nelle figure dei “guaritori” che, non di rado, si ponevano in opposizione ai medici e alla medicina ufficiale e ospedaliera.
FB, 2011
Bibliografia
Ferrara. Riflessi di una rivoluzione. Itinerari nell’occasione della Mostra per il Bicentenario della Rivoluzione francese, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo Paradiso, 11 novembre - 31 dicembre 1989), a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo, 1989; L’assistenza ospedaliera a Bondeno dall’Ottocento ad oggi, Atti del convegno di studi (Bondeno [Ferrara], 18 giugno 1993), Supplemento al volume 70 degli «Atti» dell’Accademia delle Scienze di Ferrara, 1994; Angela Ghinato, Casa Bottazzi. La storia (1893-1904), Ferrara, Tipografia Artigiana, 1996; Andrea Nascimbeni, O di morbo, o di scaduta sorte… La Cassa di Risparmio di Ferrara e le “provvidenze” sanitarie nei secoli XIX e XX, «Ferrara. Voci di una città», 12, 2008, pp. 59-63.
Al di là della ricorrente questione dei precursori, vale a dire delle correnti “sociali” dei movimenti politici sette-ottocenteschi, dal giacobinismo alle rivoluzioni quarantottesche al Risorgimento, anche in Italia la storia del socialismo è la storia del rapporto fra intellettuali socialisti e movimento operaio. Alle origini della forza del socialismo italiano si trova l’“andata al popolo” della prima generazione post-risorgimentale e l’organizzazione e radicalizzazione del mondo del lavoro, in un quadro europeo che vide nel corso del XIX secolo la rottura dell’alleanza fra borghesia e movimenti popolari e pose il problema dell’autonomia politica delle classi subalterne.
Anche a Ferrara, giovani studenti e lavoratori, come Augusto Bernardello, Pietro Lugli e Vincenzo Dondi, insoddisfatti dell’eredità mazziniana e garibaldina, abbracciarono gli ideali internazionalisti e diedero vita nel 1872 ad una Società dei lavoratori ferraresi, che pur oscillando fra marxismo e federalismo (cioè anarchismo), aderì all’Associazione Internazionale dei Lavoratori ed entrò in corrispondenza con Friedrich Engels. Più tardi pubblicarono anche un giornale internazionalista, il «Petrolio», e formarono nel 1876-77 un Circolo socialista, segretario Oreste Vaccari, vicino alle posizioni del gruppo della “Plebe” di Bignami e Gnocchi-Viani. La morte di Dondi, l’arresto di Vaccari e il suo successivo trasferimento a Milano, ma soprattutto il discredito gettato sui ferraresi dai loro legami, pur inconsapevoli, con la spia Terzaghi, portarono alla crisi e alla dissoluzione il primo gruppo socialista nella città estense.
Mentre nel capoluogo perdurava l’egemonia radicale sull’estrema sinistra, alle elezioni del 1882 si registrò la prima candidatura socialista a Cento, con il finalese Gregorio Agnini. Due anni dopo risorse un Circolo socialista ferrarese, subito sciolto. La propaganda socialista era debolissima e tanto le organizzazioni mutualistiche dei lavoratori dei centri urbani quanto le cooperative bracciantili di lavoro nelle campagne erano saldamente controllate dalla democrazia post-risorgimentale, se non da elementi moderati. I primi scioperi, tuttavia, cominciavano a mostrare i limiti di quell’egemonia e nell’Alto ferrarese, fra Cento e Bondeno, l’azione socialista, grazie all’opera di Agnini, deputato dal 1890, conquistava un primo radicamento fra i braccianti dei lavori di bonifica e i ceti medi urbani.
Nel frattempo intellettuali e professionisti di una nuova generazione passavano dai ranghi democratici e radicali all’ideologia socialista. Nel 1890 si formò a Ferrara il circolo “I figli del lavoro”, che mandò delegati al congresso del Partito socialista rivoluzionario e pubblicò un manifesto per il Primo maggio 1891. In rappresentanza dei compagni di Serravalle, Cologna e Berra, Ugo Mongini partecipò nel 1892 al congresso di Genova, ma il campo socialista locale restava diviso: non mancavano, ad esempio, polemiche da parte dei più intransigenti, come Antonio Mazza e Giuseppe Tamarozzi (che nello stesso anno pubblicavano «Il Proletario»). Sempre nel 1892 i socialisti raccolsero un grande successo elettorale, con il 43% dei suffragi nel Collegio di Cento, che comprendeva tutto l’Alto Ferrarese (calati al 35% nel 1895). I ferraresi avevano contatti ormai stabili con il gruppo milanese della “Lotta di classe” e dunque le varie anime socialiste locali confluirono infine nel PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani): i centesi Francesco Baraldi e Olindo Malagodi furono inviati al congresso di Reggio Emilia del 1893. Al momento dello scioglimento, per effetto della repressione crispina, la Lega socialista ferrarese aveva appena 150 iscritti. A quell’altezza i socialisti ferraresi, fra i quali si possono menzionare Arturo Poppi, Paolo Maranini e lo stesso Baraldi, non avevano maturato, ad esempio sul terreno elettorale e giornalistico (si servivano della «Rivista» democratica), un definitivo distacco dai radicali e, a parte l’eccezione centese-bondesana, rivolgevano scarso interesse alle campagne, dirigendosi soprattutto a lavoratori e piccola borghesia dei centri urbani.
Dopo alcuni tentativi infruttuosi, nel 1896 cominciò a pubblicarsi «La Scintilla», che sarebbe stato l’organo socialista locale fino al fascismo. Gli scioperi del 1897, del tutto spontanei, ma rivelatori della diffusione di una sensibilità classista e di simpatie per il PSI nelle campagne, suscitarono un aumento dell’attenzione per la situazione dei lavoratori rurali. I risultati elettorali restavano deludenti nel capoluogo e rafforzavano i propositi di intesa con i radicali: ma alle politiche del 1897 i socialisti raccolsero il 21% nel Collegio di Portomaggiore (che includeva Argenta, Migliarino, Massafiscaglia e Ostellato), il 36% in quello di Comacchio (che includeva, fra gli altri, anche il Copparese e il Codigorese) e il 38% in quello di Cento. Le repressioni del 1898, con un nuovo processo a dirigenti e attivisti, scompigliarono ancora una volta la rete organizzativa: solo alla fine del 1899 si riuscì a riunire il congresso provinciale da tempo preparato e venne deliberata l’autonomia elettorale, che valse il 42% dei suffragi a Cento e il 34% a Portomaggiore nel 1900 (quando ricomparve, dopo la chiusura forzata, anche la «Scintilla»). Soprattutto, si avviò finalmente un intervento nelle campagne, che avrebbe prodotto la fioritura di leghe e di altre organizzazioni di classe e favorito i grandi scioperi del 1901. I nuovi protagonisti di questa stagione, accanto a Baraldi e Maranini, furono Guelfo Pacchioni, Enrico Ortolani, Renato Castelfranchi, Alfredo Talamini e Rina Melli, fondatrice del giornale socialista femminile «Eva» (trasferitosi quasi subito, con la giovane direttrice, a Genova).
La grande conflittualità sociale delle campagne ferraresi in età giolittiana costituì la base del socialismo locale, ma agì anche come elemento di divisione interna, riproponendo una frattura storica fra città e mondo rurale, fra dirigenti provenienti spesso dall’esterno della provincia, intellettuali socialisti cittadini e organizzatori sindacali rurali, come ad esempio i copparesi Carlo Zanzi, Rutilio Ricci ed Edmondo Rossoni. Un’analoga frattura si diede tra movimento bracciantile e lavoratori urbani, inizialmente egemonizzati dal fronte democratico-radicale (passato con gli scioperi agrari su posizioni risolutamente antisocialiste), ma si sarebbe progressivamente attenuata. La dialettica fra riformisti e rivoluzionari nel PSI, infine, riverberò anche nel Ferrarese: se la linea gradualista giunse alla conquista dei Comuni di Portomaggiore (1901) e Codigoro (1903) e all’ingresso del comacchiese Aniceto Nibbio in Consiglio provinciale, nel Copparese, nell’Argentano e in altre aree della Bassa maturava, nel fuoco delle lotte bracciantili, un’opposizione rivoluzionaria, che contribuì a richiamare a Ferrara dal resto d’Italia esponenti della sinistra del partito (come Teodoro Monicelli) e poi del sindacalismo rivoluzionario (come i fratelli Guido e Umberto Pasella, Michele Bianchi, Sergio Panunzio, Adelmo Niccolai e Guido Marangoni). I risultati elettorali del 1904 furono incoraggianti, con esiti fra il 45 e il 53% nei Collegi di Cento, Comacchio e Portomaggiore, ove per la prima volta nel Ferrarese risultò eletto un candidato socialista, Enrico Ferri, poi sconfitto nelle suppletive del 1906. Fra 1904 e 1905 la situazione precipitò e si giunse alla scissione in due federazioni socialiste: una maggioritaria sindacal-rivoluzionaria che, obliterando la distinzione classica fra organizzazioni economiche e politiche, inglobava le leghe, l’altra riformista. Si giunse anche a liste elettorali separate e alla fondazione di un organo riformista «Il pensiero socialista» (al quale collaborò la giovane Alda Costa). La scissione venne riassorbita nel corso del 1906, ma si ripropose dal 1908 sul terreno sindacale, per essere superata grazie alla mediazione di Marangoni, caso raro di sindacalista rivoluzionario iscritto al PSI. Nel frattempo anche Copparo, Bondeno e Argenta avevano amministrazioni “rosse” e alle elezioni politiche del 1909 i socialisti si presentarono uniti e finalmente in tutti i Collegi, raccogliendo in media il 43% dei voti, superando la metà dei suffragi nei Collegi di Portomaggiore e Comacchio ed eleggendo Mario Cavallari (elezione poi annullata dalla Camera) e lo stesso Marangoni.
La guerra libica portò alle dimissioni degli esponenti riformisti favorevoli all’espansione italiana, ma solo alcuni di loro, Raffaele Mazzanti e lo stesso Baraldi uscirono dal partito nel 1912. Le elezioni politiche del 1913 a suffragio allargato segnarono l’affermazione socialista nelle campagne: nelle zone bracciantili classiche il PSI superò ampiamente la metà dei suffragi, toccando i due terzi nel Collegio comacchiese. Nonostante le candidature sovrapposte fra sindacalisti e riformisti, vennero eletti il modenese Armando Bussi a Cento e rieletti Marangoni a Comacchio e Cavallari a Portomaggiore. Il Ferrarese, con Mantova e Bologna, era la provincia più “rossa” d’Italia, ma Ferrara restava inespugnabile e il PSI si risolse ad appoggiare il radicale Mosti. Mentre le durissime lotte nelle campagne segnavano compromessi o sconfitte e la direzione del movimento sindacale ritornava ai riformisti, il successo elettorale fu replicato nelle amministrative: 15 Comuni su 21 furono conquistati dal PSI, che guadagnò anche la maggioranza all’assemblea provinciale e insediò alla presidenza il riformista portuense Carlo Cavallini. Mentre i sindacalisti ferraresi rimasero generalmente fedeli al loro antimilitarismo, fra 1914 e 1915 il dibattito sulla guerra portò ad ulteriori defezioni di interventisti socialisti dalle fila del PSI ferrarese, che rimase tuttavia in maggioranza neutralista.
MN, 2011
Bibliografia
Teresa Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi (1872-1901), Firenze, La Nuova Italia, 1971; Alessandro Roveri, Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo. Capitalismo agrario e socialismo nel ferrarese (1870-1920), Firenze, La Nuova Italia, 1972; Adelmo Caselli, Eugenio Ramponi, Il movimento operaio e socialista a Pieve di Cento e la Camera del Lavoro di Cento, 1860-1920, Bologna, CLUEB, 1984; 1892-1992. Il movimento socialista ferrarese dalle origini alla nascita della Repubblica democratica. Contributi per una storia, a cura di Aldo Berselli, Cento (Ferrara), Centoggi, 1992; Piero Brunello, Storie di anarchici e spie, Roma, Donzelli, 2009.
Il “sindacalismo rivoluzionario” è stata una corrente del movimento operaio diffusa in tutti i paesi industriali, che trovò radicamento nei settori dequalificati e precarizzati della forza-lavoro, negli intellettuali e negli organizzatori delusi dalle incertezze socialiste. A partire da una revisione del marxismo, in senso antiriformista e antiparlamentare, assunse la centralità del conflitto di classe, propugnando la priorità (o quanto meno l’autonomia) del sindacato sul partito e le virtù dell’azione diretta rivoluzionaria, trovando un simbolo nello sciopero generale. In Italia fu dapprima corrente socialista, poi fra 1906 e 1908 si separò dalle organizzazioni esistenti, ma solo nel 1912 diede vita all’Unione sindacale italiana. L’esperienza ferrarese fu centrale nella prima fase di passaggio, quando i sindacalisti si posero alla testa di molte lotte bracciantili nella pianura padana e in Puglia. Dopo le sconfitte nelle vertenze del 1904 e sull’onda dell’affermazione “rivoluzionaria” al congresso socialista, una dirigenza “sindacalista”, forte di apporti esterni (Bianchi, i Pasella, Mazzoldi, Monicelli, Niccolai) e di organizzatori locali (Bardasi, Rossoni, Ricci, Trevisani, Preti) si affermò in seno al PSI e alla Camera del lavoro ferraresi. Fra scissioni e ricomposizioni con l’ala riformista, i sindacalisti, particolarmente radicati nel Copparese e nell’Argentano, guidarono gli scioperi del 1906-7, 1911 e 1913: se inizialmente seppero aggirare intelligentemente i tentativi di divisione impliciti nella compartecipazione, riportandola nel quadro della gestione sindacale del mercato del lavoro, in seguito la linea di proletarizzazione generale delle campagne alienò alle leghe le simpatie di boari, mezzadri e affittuari, anche se i quadri sindacalisti restarono punti di riferimento per i braccianti – e talvolta furono anche i loro amministratori, come nei Comuni di Argenta e Massafiscaglia, e deputati, con Guido Marangoni. Protagonisti di una campagna antimilitarista, ma divisi internamente su questioni politico-elettoriali, i sindacalisti diressero infine nel 1913 lo sciopero a oltranza di Massafiscaglia che sancì la fine della loro influenza locale, tanto che l’USI raccolse nel Ferrarese solo una minoranza di lavoratori e la breve parabola sindacal-rivoluzionaria volse al termine. La valutazione storiografica ha pagato un pesante pegno ai gusti politici degli studiosi, ora denunciandone l’estremismo velleitario, ora esaltandone il radicalismo. L’estraneità degli intellettuali sindacalisti alla base rurale fu compensata da una leva di tenaci organizzatori locali, che seppero comprendere e tradurre situazioni molto polarizzate socialmente: il destino interventista e fascista di molti dei primi non deve far dimenticare i diversi percorsi dei secondi.
La redazione, 2012
Bibliografia
Alessandro Roveri, Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo. Capitalismo agrario e socialismo nel ferrarese (1870-1920), Firenze, La Nuova Italia, 1972; Id., Il sindacalismo rivoluzionario, in Storia illustrata di Ferrara, a cura di Francesca Bocchi, Milano, AIEP, 1987-1989, vol. 3, pp. 865-881; Carl Levy, Currents of Italian Syndicalism before 1926, «International review of social history», 1, 2000, pp. 209-250.
In epoca preunitaria esistevano ospedali e ricoveri che racchiudevano tra le loro mura masse di persone difficilmente classificabili, tra le quali i folli erano forse solo una minima parte. Anche le poche istituzioni più propriamente destinate al ricovero degli alienati non potevano essere considerate veramente psichiatriche, mancando ancora una sistematizzazione teorica in grado di garantire uniformità nelle diagnosi ed essendo gli interventi terapeutici inefficienti, privi di fondamento scientifico e spesso semplicemente mutuati dalla medicina generale.
Una delle teorie più seguite all’epoca faceva risalire le diverse forme di alienazione mentale, secondo una logica strettamente organica, ad alterazioni del flusso sanguigno cerebrale. Nei manicomi del tempo si faceva, perciò, largo uso della pratica del salasso. Polpe di tamarindo, vino greco, vino generoso, alimentazione varia e abbondante, acque catartiche e deostruenti erano, infine, tra le prescrizioni più frequenti.
Il manicomio di Ferrara fu istituito due anni prima dell’Unità d’Italia, su iniziativa di Girolamo Gambari. Fino al 1858, il reparto psichiatrico dell’ospedale Sant’Anna, celebre più che altro per avere avuto tra i suoi reclusi il poeta Torquato Tasso, era l’unico ente preposto alla cura degli alienati ed era destinato al puro contenimento della devianza psichica, senza scopi riabilitativi né di reinserimento nella vita sociale. Il Sant’Anna aveva due reparti destinati a ospitare i malati mentali: uno per i tranquilli e l’altro per gli agitati, con una ripartizione rispondente ai criteri “morali” allora in voga. Non possono sfuggire le similitudini tra i lazzaretti e i manicomi: il modello che la neuropsichiatria dell’Ottocento ereditava dalla medicina delle malattie infettive era fatto di isolamento ed esclusione; strutture ospedaliere il cui scopo principale era quello di salvaguardare la società. Il terrore del contagio, che aveva giocato un ruolo centrale nella modalità di intervento della medicina delle malattie infettive, fu altrettanto importante nel determinare la risposta che la società italiana dava al grosso problema della patologia mentale.
L’acquisizione di un punto di vista clinico più che assistenziale e contenitivo determinò, invece, una svolta nella nascente disciplina psichiatrica portando all’autonomizzazione dell’ospedale psichiatrico, rispetto al Sant’Anna, e alla limitazione dei ricoveri ai soli malati mentali.
Nelle intenzioni dei curatori, anche se spesso disattese, il manicomio non doveva essere chiuso verso l’esterno in quanto era inteso non solo come luogo di cura specialistica, ma anche come luogo di risocializzazione. Per questo motivo, il mantenimento di stretti rapporti tra il malato e l’ambiente di origine era ritenuto molto importante per la riuscita terapeutica.
Gambari, primo direttore della nuova struttura manicomiale, si mostrò attento a garantire condizioni igieniche, alimentari e abitative che potessero compensare quelle sfavorevoli di partenza (nella quasi totalità dei casi, la provenienza dei malati era di origine contadina o bracciantile), talvolta cause concorrenti allo scatenamento della crisi di follia. Il medico stese così un progetto adatto alla costruzione di una casa per alienati di circa 200 degenti in cui fosse possibile creare, oltre alla tradizionale divisione tra uomini e donne, agitati e tranquilli, anche locali destinati a ogni tipologia: tranquilli, convalescenti, infermi, suicidi, epilettici, irrequieti e furenti.
Ottenuta dall’amministrazione provinciale l’antica residenza patrizia di via della Ghiara, palazzo Tassoni, Gambari si apprestò, dopo aver visitato vari manicomi italiani e ispirandosi al modello francese, ad adattare l’edificio allo scopo, nonostante la situazione reale fosse piuttosto distante da quella ideale del progetto. Il riadattamento e l’ubicazione dei servizi (cucine, cantine, abitazioni del personale medico e amministrativo) furono realizzati in modo da garantire il più possibile la tranquillità dei pazienti rispetto all’esterno: visite dei familiari, un tempo meno disciplinate e interferenti con le terapie ospedaliere, fornitori, visitatori. Cuore stesso dell’attività terapeutica era la messa al lavoro dei “pazzi”, ma nell’isolamento, ossia l’ergoterapia, in evidente analogia con la pena del lavoro forzato molto praticato negli Stati italiani preunitari e in molti Paesi europei.
Erano, spesso, gli stessi delegati comunali a prendere la decisione di inviare i loro concittadini al manicomio e, al pari dei parroci, facevano da tramite tra l’istituzione, o i malati, e le famiglie per la circolazione di notizie sulla salute e sullo stato mentale dei ricoverati.
Le cause più frequenti di ricovero erano la demenza, la mania e la lipemania (una forma di depressione). Nel corso del ventennio successivo alla creazione del manicomio, la pellagra, prima confusa con altre forme di demenza, si impose come una voce ben identificata nelle statistiche.
Sulla questione del maidismo, per ovvi motivi al centro degli interessi della psichiatria ferrarese, Gambari anticipava la tesi del suo successore, Clodomiro Bonfigli, sul carattere spesso non patologico in senso psichiatrico della sintomatologia a essa collegata.
Bonfigli succedette al fondatore nel 1874 inaugurando una stagione molto feconda per il manicomio ferrarese segnata, in particolare, dalla polemica con Cesare Lombroso, iniziata nel 1878. Contro l’interpretazione semplificatrice che faceva risalire la malattia all’uso del mais avariato contenente un principio velenoso, Bonfigli adottò un’eziologia complessa della pellagra nata da un’attenta osservazione dei malati.
Bonfigli, come il suo predecessore, riteneva estremamente importante l’esistenza di luoghi di lavoro agricolo socializzante, adatto a una popolazione di origine contadina che mal sopportava la chiusura del manicomio di Ferrara tra le mura cittadine. Egli esigeva pertanto che gli infermieri conoscessero un mestiere ben preciso che permettesse loro e ai loro malati di allestire e gestire i servizi interni. Già nel 1874 aveva provveduto a impiantare quasi tutte le industrie manicomiali: officine per fabbri, muratori, pittori, falegnami, tappezzieri, sarti, per la sezione maschile; laboratori di sartoria, cucito e bachicoltura nella sezione femminile. Attività che andavano ad aggiungersi alla pratica consolidata della lavorazione della canapa a livello industriale. Il lavoro non determinava i suoi ritmi in base alle esigenze della produzione, ma a quelle della terapia; perciò l’organizzazione era elastica, adatta a dei malati che si interrompevano spesso e che ricevevano qualche compenso in tabacco, alimenti o altro. Il manicomio in tal modo realizzava l’autosufficienza per i servizi della sua gestione e si proponeva come unità produttiva integrata nell’economia locale.
Come i pazienti, ai quali erano assimilati come appartenenti a classi vicine al confine della pericolosità sociale da educare e piegare al lavoro, anche gli infermieri non erano retribuiti.
Nel 1890, con il passaggio della gestione del manicomio nelle mani di Ruggero Tambroni, l’ospedale psichiatrico, così come la stessa cultura psichiatrica ferrarese, si avviavano a transitare dall’empiria alla scienza. Nel corso del suo operato, Tambroni seguì le direttive del Bonfigli, rafforzando ancora di più l’impostazione sperimentale dell’attività medica. Non fu, invece, un campione di progresso nel campo del trattamento dei malati di mente dove, seppur sensibile alle sollecitazioni provenienti dal pensiero e dal metodo psicanalitico, continuava a ritenere estremamente importante l’uso di mezzi coercitivi e di contenzione dei malati in quanto l’assistenza ospedaliera non era ancora organizzata da renderne possibile l’abolizione. Gli sviluppi della disciplina psichiatrica lo avrebbero, tuttavia, fortunatamente smentito.
FB, 2011
Bibliografia
Danilo Di Diodoro, Giuseppe Ferrari, Linee di sviluppo nella psichiatria italiana nel XIX secolo, «Rivista Sperimentale di Freniatria», CVI, 1982; Ermanno Cavazzoni, Archivi manicomiali in Emilia Romagna, «Società e storia», XXVIII, 1985, pp. 443-478; Maria G. Meriggi, La nascita e le prime esperienze del manicomio di Ferrara (1858-1895), «Padania, Storia cultura istituzioni», II, 1987, pp. 207-223.
Il congresso di Vienna tra i rappresentanti delle potenze che avevano sconfitto Napoleone, aveva stabilito i compensi territoriali che ognuno avrebbe ottenuto. Gli alleati decisero di restituire le Legazioni alla Santa Sede e il 18 luglio 1815 il generale Stefanini, governatore civile e militare di Ferrara, Bologna e Ravenna, consegnò ufficialmente le tre Legazioni ai cardinali Bernetti, Giustiniani e Pacca, delegati dalla Santa Sede al governo delle tre province. La restaurazione del governo pontificio non fu salutata con eccessivo entusiasmo dai ferraresi, nonostante i tre giorni di festa destinati a solennizzare l’avvenimento. La rivoluzione francese e le innovazioni portate dal governo repubblicano avevano scosso le coscienze, instillando nel popolo nuovi ideali e rendendo più vivo il desiderio di rinnovare il tono di vita, e più ardente l'aspirazione di costruire una nuova e libera Italia. Fin dal 1804 si erano formate in Italia associazioni e gruppi di cittadini che propugnavano la libertà e l’indipendenza italiana e alla “Lega della Vera Italia” che aveva sede a Bologna, avevano aderito molti ferraresi. Al rientro a Ferrara quindi, il nuovo governo pontificio trovò sviluppato il germe di nuove idee, numerosi liberali aderenti alla Lega Italiana che poi prese il nome di “Setta dei Carbonari”, così come restavano numerosi sanfedisti contrari alle riforme francesi e ligi al governo pontificio e all’Austria. Nel luglio del 1815 l’Austria istituì, prima di riconsegnare le Legazioni al papa, una commissione militare per giudicare i delitti di Stato. Furono imprigionati i cittadini posti da Murat a reggere la città e la provincia, perseguitati i simpatizzanti del movimento liberale e tutti i propagandisti o collaboratori di Murat. Restaurato il governo pontificio, con podestà della città il conte Crispi, la reazione fu smorzata e su volontà di Pio VII vennero liberati tutti i prigionieri. Questa disponibilità scatenò le proteste dei reazionari, che accusarono di liberalismo tutti i moderati, mettendo in circolazione libelli e satire feroci, anche supportati dai sanfedisti, che rinati sotto il patrocinio del cardinale Rivarola, giuravano di non risparmiare nessuno «dell’infame partito dei liberali». Le persecuzioni ripresero violente quando l’Austria, con il trattato della Santa Alleanza, ebbe il compito di sorvegliare la penisola. I carbonari però continuavano a crescere e le persecuzioni attiravano nuove adesioni: le vendite si tennero più frequenti e la foresta si popolò di buoni cugini. La polizia si mostrò allora sempre più attenta e spietata, anche se, ancora nel 1817, il cardinale Arezzo rispondeva a una richiesta del direttore generale della polizia, cardinale Pacca, dicendo che a Ferrara i sostenitori del vecchio governo erano in numero da non spaventare. Proprio nel luglio del 1817 i carbonari del Veneto, della Lombardia e del Regno d’Italia stabilirono di tenere una vendita proprio a Ferrara, generando una sempre maggiore diffidenza dell’Austria e del governo pontificio. Di fronte alle confessioni dei primi arrestati, i due governi furono in grado di considerare la vera importanza del movimento liberale e, temendone gli effetti, presero misure repressive energiche. Eletto direttore generale della polizia il cardinal Consalvi, la persecuzione si fece più violenta, con arresti di semplici sospetti o ad ogni manifestazione di protesta o malcontento contro il governo. Non era possibile girare senza passaporto e questo, se concesso, portava segni convenzionali in grado di mettere sull’attenti la polizia. Caddero in mano alla polizia austro-pontificia tutte le più eminenti figure del movimento liberale ferrarese: Delfini, Taveggi, Rinaldi, Armari, Andreasi e Lugaresi, condannati a quattro anni di carcere duro. A Crespino venne arrestato il giudice Felice Foresti, dando il la a una recrudescenza nelle persecuzioni che culminò nei processi ai carbonari del Polesine.
I moti del ’20 e ’21 suscitarono nuovi entusiasmi e tennero viva la fede dei cospiratori, mostrando nel contempo il rischio di fallimento di rivoluzioni non concertate e indipendenti tra di loro. I governi intanto si fecero più rigorosi e attenti. Il papa inviò nella Romagna il reazionario cardinale Rivaroli, a Ferrara lasciò il mite cardinale Arezzo e si permise che i croati e gli ungheresi, che presidiavano la città, perseguitassero rigorosamente i liberali. Vennero consegnati all’Austria e condannati a morte Giovanni Battista Canonici e Giuseppe Delfini. La pena venne commutata, per intercessione del papa, in dieci anni di carcere duro da scontare nel castello di Lubiana. Nel ’23, dopo la morte di Pio VII, gli succedette Leone XII. Il cardinale Rivarola, in Romagna, aveva soffocato nel sangue una insurrezione liberale, con oltre cinquecento condannati di cui sette a morte. A Ferrara continuava una vita agitata dall’incubo delle persecuzioni e del sospetto.
Nel 1830 la nuova rivoluzione francese, la cui notizia si era diffusa rapidamente in Italia, aveva riacceso entusiasmi e speranze per le popolazioni oppresse, ma l’Austria inviò numerose truppe sulla sponda destra del Po e a Ferrara organizzò l’accampamento di un distaccamento a Pontelagoscuro per spegnere l’entusiasmo dei liberali. Ciò nonostante, il moto rivoluzionario scoppiato a Modena il 5 febbraio 1831 si estese anche a Ferrara. La popolazione insorse, disarmò le truppe pontificie e occupò tutti i posti di guardia, compreso il Castello. Venne nominata una Giunta a rappresentanza del governo provvisorio, composta dal marchese Tommaso Calcagnini, dal conte Giuseppe Agnelli, dall’avvocato Antonio Delfini, dal dottor Gregorio Bononi, dal conte Vincenzo Ronchi e da Giovanni Trentini; segretario fu eletto il conte Gaetano Recchi. La Giunta si recò dal prolegato per farsi consegnare le chiavi della città e per pregarlo di rientrare a Roma. Lo stesso giorno la Giunta ordinava a tutti i cittadini tra i 18 e i 50 anni di iscriversi nei ruoli della Guardia civica, comandata da Sebastiano Montallegri. La partenza del prolegato fece considerare decaduto il Governo pontificio e venne convocato il Consiglio comunale per la nomina della deputazione stabile per il governo della città. Il nuovo governo ordinava ai cittadini di fregiarsi della coccarda tricolore, innalzava le insegne della libertà, faceva abbattere le porte del ghetto, aboliva le tasse e ingiungeva ai gesuiti lo sloggio immediato. Nel mattino dell’11 febbraio veniva eletto podestà il conte Giovanni Roverella; si disponeva inoltre l’arruolamento volontario per la formazione di un battaglione in linea. Un battaglione speciale comandato dal professor Bononi inquadrò anche gli studenti universitari. Il 14 la commissione governativa emanò disposizioni per l’ordine pubblico e istituì un tribunale d’appello. A nulla valsero i tentativi bonari dell’autorità pontificia di recuperare la provincia. Ma il 4 marzo, firmato l’accordo tra la Santa Sede e l’Austria che si impegnava di restituire al papa tutti i suoi domini e di difenderli, il presidio austriaco ripiombò sulla città. Il 6 marzo il maresciallo Frimont occupava Ferrara in nome del papa, nominando una nuova reggenza composta dal conte Girolamo Crispi, da Flaminio Baratelli e dal conte Camillo Trotti. Tutte le innovazioni del governo liberale vennero abolite: sciolta la guardia civica, tolte dalla circolazione le coccarde e le bandiere tricolore, requisite le armi e imposte misure rigorose di ordine pubblico. Ricominciò il clima di sospetto, reso ancora più doloroso dalla riorganizzazione della spietata setta dei sanfedisti controllata dal barone Flaminio Baratelli. Il clima in città e in provincia si fece sempre più oscuro: alla crisi dell’agricoltura e del commercio si accompagnarono le scorribande di bande di malviventi che mettevano a soqquadro borgate, campagne ma anche zone della città. Baratelli fu assassinato nella strada di San Guglielmo il 14 gennaio 1847. Un anno più tardi i moti del 1848 riaccendevano la speranza di un’Italia finalmente unita, libera dal giogo straniero. Nel marzo dello stesso anno, Ferrara aderì alla costituente romana e vi mandò 14 rappresentanti, mentre Carlo Mayr e Gaetano Recchi fondavano il circolo nazionale. Recchi, propugnatore delle associazioni dei proprietari, dell’insegnamento pubblico della scienza agraria e delle cattedre ambulanti d’agricoltura, sarà uno degli uomini più eminenti della Ferrara dell’Ottocento.
Negli anni Sessanta la vita pubblica ferrarese volgeva alla normalità. Vinta la battaglia con lo Stato pontificio, le componenti protagoniste della vita politica si richiamavano nella quasi totalità al liberalismo. A cominciare dagli anni Settanta, i liberali moderati si compattarono nella contrapposizione ai democratici che trovarono in Severino Sani il proprio leader. In campo liberale moderato si distingueranno i membri della famiglia Cavalieri, rappresentanti di una borghesia liberale molto attiva. Enea Cavalieri sarà consigliere e assessore comunale, per assurgere poi a ruoli di rilievo nazionale, mentre il fratello Adolfo diventerà suo alter ego a livello locale, più volte consigliere e assessore comunale e provinciale e poi deputato per tre legislature, leader di quel liberalismo moderato che vedrà poi altre figure di riferimento nel deputato centese Mangilli.
LR, 2011
Bibliografia
Davide L. Mantovani, All’ombra della fortezza: la carboneria ferrarese tra Romagna e Veneto, in La nascita della nazione. La Carboneria: intrecci veneti, nazionali e internazionali, a cura di Giampietro Berti, Franco Della Peruta, Rovigo, Minelliana, 2004, pp. 253-258; Davide L. Mantovani, Ferrara e l’unità d’Italia: da Garibaldi al museo del risorgimento, Ferrara, Este Edition, 2011; Antonella Pagliarulo, Ferrara nel triennio giacobino, «Ferrara Storia», 2, mar.-apr. 1996, pp. 7-10; Luigi Pepe, Ferrara nel 1796, «Ferrara Storia», 4, lug.-set. 1996, pp. 7-12.
Anche a Ferrara il triennio giacobino e l’età napoleonica segnano l’ingresso sulla scena pubblica delle donne, che partecipano attivamente ai fermenti rivoluzionari e alla vita delle nuove istituzioni cittadine. Tra i 289 soci fondatori della Società del Casino – che si riunì per la prima volta il 5 luglio 1803 nei locali del teatro comunale – 70 sono le donne, che avevano accesso al circolo con pari diritti. Tra di esse ricordiamo Maria Rossi Scutellari (1752-1832), nel cui salotto si progettavano tra l’altro provvidenze a favore dell’infanzia e delle donne in difficoltà. Ad affiancare Maria erano altre signore dell’alta società ferrarese, quali Angela Scacerni Prosperi e la marchesa Maria Calcagnini Zavaglia (1754-1846). Quest’ultima, frequentatrice di corti e accademie e animatrice di uno dei più vivaci salotti cittadini, nutrì un vivo interesse per i problemi dell’educazione delle giovani donne e dei fanciulli indigenti. Collaborò alla riorganizzazione scolastica secondo le direttive esposte nel Piano generale di pubblica istruzione della Repubblica Cisalpina (1797) ed ebbe un ruolo direttivo nel Gran conservatorio per le zitelle, istituito a Ferrara nel 1804. All’educazione delle donne si consacrò anche la marchesa Ginevra Canonici Facchini (1779-1870), nobildonna colta e letterata e iscritta a varie accademie. Nel 1824 diede alle stampe una lettera Sulla educazione e direzione de’ grandi conservatori, la finalità dei quali avrebbe dovuto essere non solo di rendere le donne degne «di portare il titolo rispettabile di spose e di madri e di adempierne tutti i doveri», ma anche «di poter bastare a se stesse, se la sorte le condanna al celibato»: convinzione che sorgeva dalla constatazione che «le guerre, l’avarizia dei parenti, le malattie e mille imprevedute circostanze, lasciano languire una gran parte del nostro sesso privo di un compagno […] e spesso l’irreligione, l’immoralità e l’ignoranza, lungi dall’offrire nel marito una guida e un asilo, pone al fianco un oppressore, un distruttore della pace, un obice possente alla buona condotta dei figli». Parole da cui traspare un’innegabile valorizzazione degli spazi di autonomia esperibili dalle donne al di fuori della famiglia. Il programma educativo illustrato dalla marchesa contemplava non soltanto la musica e il disegno, il ballo e i lavori d’ago, ma anche la grammatica italiana e le lingue straniere, la geografia, la storia, le scienze, la cosmografia, e la geometria, «che essendo un complesso di ragionamenti, ajuta a sviluppare la ragione». Sulla stessa linea di pensiero si colloca l’opera più celebre di Ginevra Canonici: il Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal sec. XIV fino ai giorni nostri con una risposta alla Lady Morghan riguardante alcune accuse da lei date alle donne italiane (1824).
All’impegno profuso nel campo delle politiche educative dalle “cittadine” di Ferrara si votarono anche le donne della generazione successiva, i cui ambiti d’azione privilegiati furono l’assistenza all’infanzia e l’istruzione dei bimbi. In tale contesto spicca l’iniziativa di Luisa Recalchi(1814-1892), moglie del medico mazziniano Carlo Grillenzoni. Sebbene un decreto della Suprema Inquisizione avesse proibito nel 1837 l’apertura di asili infantili nello Stato pontificio, nel 1846 Luisa riuscì a fondare un ricovero per fanciulli abbandonati o figli di donne lavoratrici, lo Scaldatojo, che si trasformò in breve tempo in un vero asilo d’infanzia. Nell’impresa la Recalchi fu coadiuvata da altre «dieci caritatevoli signore», tra cui Antonietta Massari Masi (1813-1897) e Gianna Maffei Trotti Mosti (1798-1879), che fu in contatto epistolare con Ferrante Aporti, ai cui principi educativi si ispirarono i primi asili di carità ferraresi. All’opera assistenziale ed educativa tali donne coniugarono l’aperto sostegno alla causa dell’unità e dell’indipendenza nazionale. A casa della marchesa Maffei si riunivano i patrioti che diedero vita all’insurrezione del 7 febbraio 1831 e lei stessa collaborò al foglio «L’Italiano», diretto da Gaetano Recchi. La Massari Masi fu invece attiva nella rivoluzione del 1848, come attestano l’Elenco dei compromessi politici di Ferrara e il manifesto Doni fatti dai cittadini sulla Piazza di Ferrara nei giorni 4, 5, 6, 8 maggio 1848 per la causa della Crociata depositati alla Comune. Durante le cinque giornate di Milano e nei mesi successivi «soccorse con grandi sussidi i reduci della guerra che riempivano i nostri ospedali e nella sua stessa casa apriva un ospedalino succursale che essa manteneva a proprie spese». Nel 1849 la figlia Malvina Trotti Mosti(1818-1905) seguì il marito Giovanni Costabili a Roma ove, insieme alla principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso e ad altre donne italiane, diresse gli ospedali militari. Fu in stretti rapporti con Garibaldi e con Mazzini. Nel 1859 fu presidentessa del comitato costituito da alcune signore ferraresi che raccolsero e apprestarono indumenti e soccorsi per i feriti della seconda Guerra d’indipendenza. Fu ispettrice delle prime scuole comunali istituite dopo il 1860. Tra le donne che parteciparono alle vicende risorgimentali si segnalano inoltre Carolina Scutellari Boldrini (1825-1900), che nel 1848 consegnò ai volontari romani in partenza per Vicenza i vessilli e la Bandiera ricamata dalle donne ferraresi e Vaniglia Vitali Norsa Pesaro (1822-1851), una delle tante donne ebree che fecero donazioni a sostegno della causa italiana. Nel febbraio 1848 Vaniglia era stata ammessa alla Società del Casino, che per impulso degli eventi rivoluzionari, si era aperto ai maggiorenti della borghesia ebraica. Anche alcune donne del popolo si distinsero nella crociata contro gli austriaci: tra queste la fruttivendola Rosa Angelini Casale (1824-1891), che partecipò, come vivandiera del 9° Reggimento volontari italiani, alla campagna del 1866, «dando anche prova di coraggio veramente virile e di cuore ben fatto in più di una peripezia».
Se la partecipazione al processo di unificazione nazionale consentì a molte donne di accedere alla sfera pubblica e di sperimentare nuovi spazi di libertà e autonomia, è stato da più parti osservato come i modelli femminili promossi dal movimento mazziniano finissero spesso per ribadire una concezione conservatrice dei ruoli di genere e degli assetti familiari: la donna restava principalmente moglie e madre di cittadini e la sua attività al di fuori delle mura domestiche si limitava all’educazione, all’assistenza e alla beneficienza. Le stesse iniziative educative a cui abbiamo accennato – principalmente miranti a forgiare buone mogli e buone madri – non sovvertivano né i ruoli di genere, né le gerarchie di classe.
Nel solco di questa tradizione d’impronta liberale moderata si pongono all’inizio del Novecento istituzioni come la sezione ferrarese della Società nazionale di Patronato e Mutuo Soccorso per giovani operaie, promossa da Argia Riva e presieduta da Paolina Pepoli Mosti. Nel ricreatorio festivo erano impartite lezioni di lettura, scrittura e disegno alle «giovinette del popolo», intrattenute con balli, esercizi ginnici e conferenze.
A Cento la marchesa Maria Majocchi Plattis (1864-1917) fondò nel 1905 un’associazione femminile che si proponeva di «proteggere le figlie del popolo togliendole ai pericoli e all’ozio della strada». A tal scopo era istituita una scuola preparatoria operaia in cui le giovani apprendevano i lavori femminili. Giornalista e scrittrice di fama, prolifica autrice di romanzi di successo destinati a un pubblico femminile, Maria Majocchi – che si firmava con lo pseudonimo Jolanda – collaborava sin dal 1882 con «Cordelia», una delle riviste femminili più in voga, di cui nel 1911 avrebbe assunto la direzione. Se da una parte la Majocchi rigettava il modello della donna emancipata e mascolina (Adriana, la protagonista del racconto Prime Vittorie (1894), comprende infine che la «vera missione» della donna «non è quella di tirar col fucile o fumar le sigarette o occuparsi di politica», ma di «amare o beneficare … portare la pace e l’amore»), il suo piglio si fa più battagliero e polemico allorché prende di mira pregiudizi misogini assai diffusi. Convinta, sulla scorta di Spencer che l’intelletto femminile avesse «uno sviluppo diverso, ma non inferiore a quello dell’uomo», scriveva: «Quando la donna vuole (e lo vuole poco, per fortuna!) […] non solo vi uguaglia, ma vi sorpassa, giacché acquista la vostra larghezza di mente senza perdere la sua finezza divinatrice che voi ottenete sempre poco e a stento, e artificiosamente. Vorrei che fosse possibile dare ad un giovinetto e ad una fanciulla un’educazione ed un’istruzione identica con la medesima libertà di vita, e vi assicuro che a vent’anni la giovinetta si sarebbe lasciato indietro il suo coetaneo».
Connotata da toni e propositi ben più radicali è l’attività della socialista RinaMaranini Melli (1882-1958). Nata a Ferrara da famiglia benestante israelita, a quattordici anni conobbe Paolo Maranini e lo sposò contro il volere dei genitori. Fu con il marito tra i promotori delle prime leghe di resistenza nel Ferrarese. Grazie alla sua intensa attività di organizzazione e propaganda, nel maggio 1901 le leghe femminili provinciali ascesero a 38, contro le 56 maschili. Nel 1901 fondò «Eva», il primo periodico femminile socialista apparso in Italia, dalle cui colonne sostenne le battaglie politiche condotte dalle donne del PSI: contro l’allattamento mercenario, per la ricerca della paternità e l’assistenza alle madri povere, a favore della legge Turati-Kuliscioff per la difesa della donna e del fanciullo. Trasferitasi la Melli a Genova nel 1902, la sua eredità fu raccolta dalla maestra elementare Alda Costa (1876-1944). La Melli non si occupò solo delle condizioni materiali delle donne madri e lavoratrici: «Eva» pubblicava una rubrica intitolata Dal campo al tavolino in cui si invitavano le lettrici a studiare e a partecipare al vasto «movimento intellettuale» che andava svolgendosi nel senso di «un continuo emanciparsi, un progressivo elevarsi dell’anima femminile». Tuttavia, nel 1906, allorché si riaccende il dibattito sul suffragio femminile, a favore del quale si schiera la stessa Kuliscioff, Rina scrive: «Le donne socialiste devono dimenticare i diritti femminili o femministi per occuparsi del grandioso diritto umano […], lasciamo il femminismo alle borghesine». Non sappiamo cosa pensasse a tal proposito Maria Majocchi.
Di origini ferraresi fu una delle donne più in vista del movimento emancipazionista e suffragista italiano d’inizio secolo: Eugenia Vitali, trasferitasi a Verona dopo il matrimonio con Guglielmo Lebrecht. Collaborò al comitato romano pro suffragio femminile e fondò la sezione veronese dell’associazione per la donna, nata a Roma nel 1897. Intervenne al primo congresso delle donne italiane con una relazione sulla scuola areligiosa. Sarà la prima donna italiana ammessa a parlare al circolo giuridico di Roma, dove tenne discorsi sulla ricerca della paternità (1910) e sul divorzio (1914).
CB, 2012
Bibliografia
Sugli Asili infantili di Carità in Ferrara. Relazione, Ferrara, 1847; Carlo Zaghi, Donne nel Risorgimento ferrarese, «Rivista di Ferrara», 1934; Cristina Sideri, Ferrante Aporti: sacerdote, italiano, educatore, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 324 e 341; Delfina Tromboni, Dall’“arte del fare” al “fare arte”: storia di tele e di ruoli. Muse, artiste, vestali e “femmes savantes” nella Ferrara tra Otto e Novecento, in Presenze femminili nella vita artistica a Ferrara tra Ottocento e Novecento, Ferrara, Liberty house, 1990; Simona Trombetta, Majocchi Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 67, 2007; Alessandro Roveri, Costa Alda, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 30, 1984; Elena Sodini, Eugenia Vitali-Lebrecht: appunti per una biografia, in Storia della Società Letteraria di Verona tra Otto e Novecento, Verona, Cierre, 2007, pp. 137-160; Il movimento socialista ferrarese dalle origini alla nascita della repubblica democratica, a cura di Aldo Berselli, Cento (Ferrara), Centoggi, 1992; UDI di Ferrara, Progetto 150° - Cittadine senza diritti, Catalogo biografico: https://sites.google.com/site/udiferrara/home/archivio-storico/progetto-150/catalogo-biografico.
Gli anni Trenta e i primi anni Quaranta dell’Ottocento sono molto importanti in chiave storico-politica perché se, da un lato, l’immagine della nazione si solidifica e si impone in modo uniforme a tutti coloro che credono nel suo riscatto, dall’altra cominciano a manifestarsi con evidenza le divisioni sulle progettualità politico-costituzionali, che assumono anche forme organizzative distinte. Accanto alla corrente moderata-neoguelfa l’altra principale espressione del movimento nazionale è quella democratico-mazziniana. Per quanto il campo democratico sia attraversato da un molteplice sistema di reti settarie (come quelle europeiste e comuniste ispirate da Buonarroti) è certo che dal 1831, proprio l’anno in cui a Ferrara scoppiano le rivolte di stampo liberale contro il governo pontificio, la figura di Giuseppe Mazzini si impone con la forza della sua predicazione politica e della sua rete organizzativa, la Giovine Italia. Ferrara aveva dato i natali al conte Alessandro Bonacossi, patriota che dopo aver aderito ai princìpi giacobini, è in Francia propugnatore dell’ideale repubblicano e successivamente, come direttore a Marsiglia di un foglio antimazziniano, deciso sostenitore di una cospirazione europea di vasto raggio in grado di soggiogare anche i princìpi ispiratori delle insurrezioni italiane.
Dopo il biennio 1848-49, mentre Cavour coglie una serie di successi e il Piemonte costituzionale consolida il proprio prestigio di Stato liberale, l’opinione democratica vive una stagione difficile, indebolita dalle recriminazioni e dalle polemiche interne sulla conduzione della rivoluzione quarantottesca. Si contano diverse posizioni. Da chi sostiene la necessità di costruire una federazione di repubbliche democratiche (Giuseppe Ferrari, Carlo Cattaneo) a chi punta sulla strada di una rivoluzione nazionale (Pisacane). Mazzini invece resta fedele al suo pensiero prerivoluzionario, propugnando l’organizzazione di più insurrezioni che avrebbero portato poi alla convocazione di una costituente. Di quei tempi si ricordano a Ferrara almeno un paio di eventi significativi: la costituzione del battaglione dei “Bersaglieri del Po”, composto da 155 patrioti che si fa onore nella prima guerra d’indipendenza; la fucilazione dei patrioti mazziniani Succi, Malagutti e Parmeggiani (avvenuta il 16 marzo 1853), condannati per alto tradimento, in quanto membri di un comitato patriottico che, il 27 maggio del 1852, effettua un lancio di volantini durante un balletto al teatro Comunale.
Dopo l’unità di Italia le prime elezioni politiche vedono una sostanziale predominanza del “gran partito liberale”, ma il quadro è destinato a mutare nelle tornate successive, amministrative e politiche, quando si fa largo una sinistra moderata e democratica, sostenuta dalla Società Democratica Unitaria Ferrarese, dalla Società di Mutuo Soccorso degli Operai, che sostiene il programma elaborato su scala nazionale da Saffi, incentrato sul suffragio universale e sull’istruzione elementare obbligatoria e gratuita. Rapida e affascinante si dispiega poi sul territorio, in periodo elettorale, una grande battaglia intellettuale appoggiata dagli organi di stampa locali come «La Gazzetta ferrarese» e «L’Eridano», che si pone a pieno titolo nel dibattito tra destra e sinistra.
A Ferrara, nel periodo post-unitario, l’uomo più intraprendente in campo democratico è, senza dubbio, Severino Sani, un ex garibaldino che, pur non avendo mai combattuto le guerre risorgimentali, diviene capo della “Società reduci dalle patrie battaglie”, facendone strumento delle proprie fortune elettorali. La formazione di un partito democratico si innesta da un lato sulla prevalenza elettorale della sinistra (per anni nei quattro Collegi elettorali del Ferrarese, l’unico deputato eletto dalla Destra risulta Mangilli), dall’altro nella linea antimoderata assunta dai molti liberali che nel periodo precedente avevano combattuto il governo pontificio. Sani è un abilissimo interprete della doppiezza politica, spaziando in modo spregiudicato tra alleanze e opportunismi: rappresentante del partito democratico-radicale che si oppone ai moderati liberali, avrebbe poi tentato la strada dell’alleanza con gli antichi avversari e infine avrebbe favorito l’inserimento dei cattolici per ostacolare i socialisti e le nuove tendenze democratiche, rappresentate da Ercole Mosti, che si era staccato dal suo partito. Nel 1877 Sani è consigliere e assessore nel Comune di Ferrara, allora guidato dal sindaco Anton Francesco Trotti, un ex ostaggio degli austriaci nel 1849, molto amato dai ferraresi. Il Consiglio comunale, costituito da una maggioranza di liberali moderati, alle elezioni del 1875 vede eletti, secondo consuetudine, anche candidati della lista opposta, detta di conciliazione. Dopo le elezioni parziali e l’elezione di un Consiglio a maggioranza democratica, viene infine eletta una giunta tutta democratica, che vede tuttavia una frattura nel 1878 quando tre assessori, Adolfo Mayr, Ignazio Scarabelli e Gaetano Forlani, si dimettono dalla giunta comunale. Sani tuttavia avrebbe mantenuto l’incarico, dimostrando indifferenza verso la coerenza politica. La cosa non gli impedì di essere, l’anno successivo, tra i rappresentanti del partito progressista al congresso regionale di Bologna. Sempre nel 1879 la caduta del governo Cairoli provoca forti contraccolpi tra le fila democratiche, che nell’ex garibaldino pavese avevano intravisto l’espressione più alta della democrazia in uno stato unitario monarchico. A Ferrara, mentre Scarabelli si ritira progressivamente dalle scene, Sani diviene incontrastato leader dei democratici radicali. Di fronte alla trasformazione del sistema elettorale (ai Collegi uninominali viene sostituito il sistema dello scrutinio di lista e nel frattempo l’elettorato sale da mezzo milione a due milioni di votanti), Sani intuisce l’esistenza di uno spazio politico e promuove l’alleanza fra radicali e sinistra “storica”, che culmina nella composizione di una lista (Carpeggiani, Seismit-Doda, Sani) che avrebbe sconfitto quella dei moderati alle elezioni politiche del 1882. Eletto alla Camera, Sani siede nel gruppo dell’estrema sinistra, confermando il suo radicamento elettorale con la successiva rielezione nel 1886. Rafforza il proprio potere attraverso una rete di rapporti clientelari, una grande iniziativa imprenditoriale e un equilibrio di poteri che lo porterà, in alcuni casi, ad appoggiare candidati moderati contro i democratici-radicali in altri collegi della provincia, pur di trarre vantaggi – cioè l’appoggio liberale – nelle elezioni del suo Collegio. Un’altra abile mossa di Sani è quella di guadagnare l’appoggio dei cattolici e delle gerarchie ecclesiastiche, sfruttando il proprio ruolo di esattore delle decime della Mensa arcivescovile. Successivamente il potere di Sani si indebolisce, anche a causa di una serie di scandali e di opposizioni interne, scaturite da gruppi di giovani che avevano fondato, tra l’altro, il Circolo Radicale Operaio.
Tramontato definitivamente il “sanismo”, il filo delle politiche democratico-radicali è ripreso dal conte Ercole Mosti. Proclamata la natura borghese del partito, lo mantiene tuttavia aperto alle collaborazioni a sinistra, anche con i socialisti. Le elezioni comunali di Ferrara del 1902 lo vedono eletto in Consiglio comunale e rappresentano l’avvio di una folgorante carriera che lo avrebbe portato alla vittoria alla testa dei partiti popolari.
LR, 2011
Bibliografia
Alessandro Roveri, Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo: capitalismo agrario e socialismo nel Ferrarese (1870 – 1920), Firenze, La Nuova Italia, 1972; Sinistra costituzionale, correnti democratiche e società italiana dal 1870 al 1892, Firenze, Leo S. Olschki, 1988; 1892-1992. Il movimento socialista ferrarese dalle origini alla nascita della repubblica democratica, a cura di Aldo Berselli, Cento, Centoggi editore, 1992; Davide L. Mantovani, Liberali, radicali, socialisti. La battaglia delle idee, ivi, pp. 49-60; Davide L. Mantovani, Le elezioni a Ferrara dall’Unità allo scrutino di lista, «Ferrara Storia», 1, I (1996), pp. 19-26.
Anche Ferrara, per quanto Legazione dello Stato pontificio, visse il proprio momento neoguelfo. Si trattò di anni segnati da importanti eventi politico-religiosi e da forti contrasti ideali. Nel cosiddetto “ventennio francese” si erano delineate le ragioni del dissidio tra rivoluzione e cattolicesimo, tra concezione di uno Stato che tendeva ad affrancarsi dall’investitura divina e una Chiesa che continuava a considerarsi indipendente dal riconoscimento dell’autorità terrena. Si erano colti i segni di un nuovo orientamento della politica che tendeva a ridurre la funzione direttiva della Chiesa nella società civile. Di questa aria nuova si era resa consapevole parte della cultura cattolica locale, che oscillava tra una sorta di illuminismo cattolico e le prime avvisaglie dell’ultramontanismo. Il fiorire degli ordini religiosi, la ricostruzione della Compagnia di Gesù, l’intensa partecipazione del clero e del laicato alle Missioni popolari accreditavano l’immagine del pontefice come reggitore della Chiesa e dei popoli in cui essa era insediata. Fu Carlo Odescalchi, patrizio romano, il primo vescovo dopo la restaurazione (1823-25). Al suo episcopato sono da ricondurre un’attenzione particolare su tutte le scuole pubbliche e private di qualunque genere di istruzione e una carità verso le popolazioni povere. In questo modo, la Chiesa denotava forti interventi di rafforzamento morale non rinunciando a una forma di azione politica di controllo e orientamento delle masse povere. Le problematiche incontrate da Odescalchi furono ereditate anche dal suo successore, Filippo Filonardi (1826-34) che vide a Ferrara il sorgere di un attivismo politico destinato a sfociare nella rivolta popolare del febbraio 1831. Successivamente, con l’episcopato di Gabriele della Genga Sermattei (1834-43) e di Ignazio Giovanni Cadolini (1843-50), ci fu un’apertura alle istanze cattolico-liberali. I primi moti libertari cominciavano infatti a delineare quella che sarebbe diventata la lunga stagione del risorgimento italiano. Il vescovo Luigi Vannicelli Casoni (1850-77) fu una voce autorevole dell’intransigentismo cattolico e l’antesignano di forme moderne di apostolato sociale. Sotto il suo episcopato, che abbraccia un periodo ampio e molto importante per la storia del risorgimento, in ottemperanza al non expedit di Pio IX, i cattolici ferraresi non si impegnarono direttamente nelle diverse tornate elettorali, ma non rinunciarono a un’ampia opera che potremmo definire prodromica dello sviluppo del cattolicesimo politico ferrarese.
In questo contesto, tra le figure di maggior spicco del cattolicesimo politico ferrarese occorre ricordare senza dubbio personaggi come l’avvocato Luigi Borsari (Ferrara 1804-1887). Borsari, laureatosi con il massimo dei voti a Bologna, nel 1824 rientrò a Ferrara, dove esercitò con successo l’avvocatura. Vinta la cattedra di diritto romano, fu nominato il 18 settembre 1845 professore presso la Pontificia Università e le sue lezioni riscossero grande successo tra gli studenti. Di ferma fede cattolica, ma di sentimenti liberali, fu favorevole all’atteggiamento assunto da Pio IX nei primi due anni di pontificato, ma ben presto si rese conto dei limiti delle riforme governative e criticò vivacemente la prudenza del governo pontificio in materia di riforme e, in particolare, la legge sulla libertà di stampa che giudicò insufficiente. Fu eletto deputato di Ferrara il 18 giugno 1848, e si fece notare per i suoi interventi in favore della concessione della parità di diritti agli israeliti scrivendo anche un opuscolo, La questione israelita, dedicato a d’Azeglio che per primo aveva sollevato la questione. Pronunciò inoltre discorsi contro l’inerzia del governo nei giorni in cui Ferrara veniva minacciata dagli austriaci. Convintosi che a causa delle reciproche rivalità, i principi regnanti in Italia non avrebbero mai stretto un’alleanza in funzione antiaustriaca, rassegnò le dimissioni da deputato. Ritornato a Ferrara, fece parte della magistratura cittadina che il 6 maggio 1849 si rifiutò di riconoscere la restaurazione del governo pontificio. Abrogata dal nuovo delegato pontificio la parità concessa agli israeliti, Borsari non esitò a prendere apertamente posizione contro il nuovo provvedimento. Fu per questo che il Consiglio di censura l’1 aprile 1850 lo dichiarò decaduto dalla cattedra universitaria e da ogni altro impiego. Dopo la guerra del 1859 fu chiamato da D’Azeglio, commissario governativo per le Romagne, a diventare ministro di Grazia e Giustizia. Rifiutò, accettando il posto di consigliere di Corte d’appello a Bologna dove fu anche professore di diritto civile e deputato per il collegio di Argenta (1860).
Camillo Laderchi (Faenza 1800 - Ferrara 1867), fu da subito favorevole a un graduale accordo tra religione e libertà, tra sentimento religioso e sentimento patrio, tra dottrina della Chiesa e libere istituzioni. Laderchi, nobile faentino, aderì in gioventù alla Carboneria, finendo presto nelle mani della polizia austriaca. Durante i processi di Milano del 1821, per inesperienza e paura, fece dichiarazioni che costarono la vita a un suo professore dell’Università di Pavia, Adeodato Ressi. Conseguita la laurea in giurisprudenza a Bologna, si trasferì a Ferrara. Nella sua città d’elezione, per il suo schietto cattolicesimo e per la moderazione dei suoi principi liberali, ottenne l’insegnamento di Diritto Romano e di Filosofia del Diritto all’Università. I suoi svariati interessi culturali e il prestigio guadagnato negli ambienti culturali nazionali lo misero in contatto con eminenti personalità della cultura cattolico-liberale italiana ed europea (Manzoni, Pellico, d’Azeglio, Montalembert, Overbeck). Laderchi si professava liberale e non mancava di sottolineare i vincoli che limitavano la democrazia del suo tempo (l’aristocrazia del censo, delle capacità, della nascita) e ad auspicare il superamento di questi limiti nel progressivo allargamento dell’elemento democratico in seno al governo delle nazioni. Solo il cattolicesimo, per Laderchi, poteva sconfiggere questo cancro. La stessa legge civile riusciva positiva solo se prendeva le mosse dalla religione cattolica, unica sorgente da cui può derivare il bene supremo, in una prospettiva di rinnovamento cristiano delle coscienze, alimentato dalla religione che diventa regolatrice della società. Quanto ai rapporti tra Stato e Chiesa, la condizione ottimale era, per Laderchi, quella di uno Stato che ponga alla base della sua legislazione la libertà e l’eguaglianza dei culti. In questa condizione, la Chiesa cattolica, spogliata della protezione altre volte concessale, aveva bisogno soltanto di quella libertà che è diritto comune di ogni cittadino, a qualunque culto appartenga. Camillo Laderchi visse una vita ispirata ai princìpi cristiani riassunti nella consapevolezza che essi dovessero conciliarsi con le istanze più vive del liberalismo italiano ed europeo, sulla scia del grande insegnamento del romanticismo cristiano del Manzoni.
Dopo la nascita dello Stato unitario, in campo cattolico emerse la figura di Giovanni Grosoli (Carpi 1859 - Assisi 1937) che avviò a Ferrara una serie di iniziative importanti a livello assistenziale e politico. Grazie a questo impegno, Grosoli si meritò la stima del pontefice che lo insignì di importanti attestati d’onore. Presidente del comitato regionale romagnolo dell’Opera dei congressi e dei comitati cattolici (1891-1892 e 1896-1902), si distinse in questo ambito come promotore di iniziative nel settore giornalistico e in quello creditizio. Nel gennaio 1895, aveva promosso a Ferrara la pubblicazione del periodico «La Domenica dell’operaio»; ma, soprattutto, alla collaborazione di Grosoli con Giovanni Acquaderni, coi cardinali Mauri e Svampa si deve la nascita, nel 1896, del quotidiano bolognese «L’Avvenire», che nel 1902 mutò testata in «L’Avvenire d’Italia». Il nuovo quotidiano cattolico si distinse per una linea non più intransigente ma votata a un’opera di mediazione e di incontro tra le varie istanze del campo cattolico, con toni più disponibili alla collaborazione con le istituzioni liberali. Grosoli fu anche l’artefice della costituzione, a Ferrara, di casse rurali e opere di assistenza ai contadini e ai piccoli proprietari, che trovarono un importante strumento finanziario nel Piccolo Credito romagnolo. Si rompeva così il monopolio delle banche popolari, mettendo a disposizione dei cattolici un organismo destinato ad affermarsi e rafforzarsi. Grosoli fu poi fondamentale per portare i cattolici ferraresi alla guida dell’amministrazione cittadina. Entrato per la prima volta in Consiglio comunale nel 1895 con 2 consiglieri cattolici, nel 1899 fu eletto insieme ad altri 5 cattolici, divenuti 9 nel 1902. Questi successi trovarono conferma nelle elezioni che si susseguirono fino al 1920, portando infine alla guida del Comune una coalizione clerico-moderata, nella quale appariva determinante il ruolo dei cattolici. Dal punto di vista ideale, Grosoli fu molto attento ai fermenti sociali che animavano i gruppi giovanili legati al movimento della democrazia cristiana guidato da Romolo Murri. In particolare va sottolineata l’azione di mediazione tesa a superare i contrasti giudicati pericolosi per l’unità e la compattezza del movimento cattolico. Questa sua posizione e il prestigio crescente che si era guadagnato in seno alle organizzazioni cattoliche convinsero Leone XIII a nominarlo presidente dell’Opera dei congressi. Fu in questo contesto che Grosoli promosse il leale riconoscimento dell’Unità nazionale e della monarchia sabauda, un atteggiamento che ribaltava la linea dell’intransigentismo cattolico. Egli, in realtà, prefigurava un orientamento che esprimeva non tanto le aspirazioni delle correnti democratico-cristiane, quanto gli indirizzi che di lì a poco avrebbero trovato spazio e successo attraverso la formula del clerico-moderatismo.
LR, 2011
Bibliografia
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