La secolare attività svolta dai Consorzi di bonifica operanti nel Ferrarese si può vedere come il frutto di un lungo ed impegnativo processo di composizione politica di interessi e volontà diverse dei proprietari terrieri ferraresi. La difesa dalle alluvioni del Po e degli altri fiumi e la creazione e manutenzione di una fitta rete di scolo hanno imposto una cosciente regolazione unitaria di quella “solidarietà idraulica” che ha sempre legato le terre più alte alle terre soggiacenti. Tutti i territori più depressi del Ferrarese orientale, ricoperti per gran parte da acque dolci o salate hanno sempre svolto la importantissima funzione di recapito delle acque di scolo dei terreni di antica sistemazione idraulico-agraria. Si pensi alle grandi valli di Ambrogio, contenute dal lungo e antico argine Brazzolo a difesa del Polesine di Ferrara. Verso la depressione di Ambrogio affluivano le acque scolanti dal bacino superiore del Polesine di Casaglia e, attraverso i brazzoli, anche le acque delle terre vecchie situate ad est della città di Ferrara. Analoga funzione di scolo ha avuto il vastissimo bacino del Mezzano, un tempo recipiente per le acque dolci scolanti dal Polesine di San Giorgio e difeso, fino al XVII secolo, dall’argine del Mantello contro l’intrusione delle acque salse delle retrostanti lagune comacchiesi.
L’attività di bonifica nel Ferrarese, sotto l’azione dei consorzi privati, non si è limitata ad assicurare alle terre già sistemate e messe a coltura una rete scolante sempre più efficiente. A partire dalla seconda metà del secolo XIX essa si è rivolta sempre più alla conquista di nuova terra coltivabile riducendo progressivamente la presenza delle aree umide e prosciugando, grazie all’impiego di impianti idrovori mossi dal vapore o da energia elettrica, anche i bacini interni soggiacenti al livello medio del mare.
Agli occhi degli osservatori italiani ed europei agli inizi del Novecento la regione deltizia del Po, e la provincia di Ferrara in particolare, erano diventate “l’Olanda d’Italia”. Tra il 1870 e 1900 erano state infatti prosciugate, sistemate e messe a coltura decine di migliaia di ettari di terre occupate, temporaneamente o stabilmente, da acque dolci o salate. Qui l’antica proprietà nobiliare o comunale aveva ceduto le proprie terre paludose al latifondo capitalistico, diretto da società per azioni di bonifica che avevano iniziato a coltivarle in economia con salariati e boari. Il mutamento delle principali componenti geografico-territoriali, e la rapidissima riduzione delle aree umide e vallive segnava anche il drastico passaggio da un’economia di raccolta, caccia e pesca ad un’economia agraria capitalistica che aveva pochi paragoni nel paese.
Fino all’arrivo dei francesi nel 1796 l’organizzazione della difesa idraulica e la manutenzione del sistema scolante conoscevano due diverse forme, l’una di tipo pubblico rappresentata dall’amministrazione comunale di Ferrara con l’organizzazione dei “Lavorieri del Po”; l’altra di tipo privatistico formata dai diversi consorzi di bonifica, con autogoverno per quanto riguarda le opere di scolo accessorie.
Nel 1580 il duca Alfonso II d’Este aveva istituito la Conservatoria della Bonificazione del Polesine di Ferrara, in pratica un consorzio di proprietari interessati per la manutenzione delle opere eseguite dallo stesso duca e da soci tra il 1564 e il 1580. Di fatto essa costituì per due secoli (1580-1796) un’amministrazione autonoma rispetto a quella dei Lavorieri del Comune che avevano giurisdizione sulle sole “terre vecchie” già sistemate sul piano idraulico e i cui proprietari pagavano contributi alla Cassa Lavorieri. Di analoga autonomia di governo degli interessi idraulici godevano i proprietari del territorio di Bondeno, che fin dal secolo XV si erano organizzati in diversi bacini scolanti chiusi verso l’esterno, detti Serragli (Pilastri, Carbonara, Pé di Bò, Sorellare, Redena, Santa Bianca). Analogamente si erano organizzati i possidenti dell’Argentano. Fin dal 1605 anche i proprietari del grande comprensorio del Polesine di San Giorgio, racchiuso tra il Po di Volano, Po di Primaro e Valli di Comacchio, avevano chiesto al legato pontificio di poter meglio difendere i loro interessi riunendosi in una rappresentanza di tipo consortile, dando vita alla Congregazione consorziale del Polesine di San Giorgio (atto del notaio Felloni, 22 dicembre 1605).
Sotto il regime napoleonico questa articolazione di autogoverno e rappresentanza degli interessi in campo idraulico venne sconvolta. Nel 1801 cessò di funzionare la Congregazione dei Lavorieri, istituita non senza forti resistenze nel 1752 dal legato Barni e riorganizzata nel 1784 dal cardinale Francesco Carafa. La congregazione fu sostituita temporaneamente da una Commissione d’acque ma la legge 25 aprile 1804 avocò allo Stato la competenza sulla difesa dei fiumi, ponendo così termine alla secolare competenza comunale. Con un successivo decreto del 20 maggio 1806 i consorzi, i serragli e le altre aggregazioni furono convertiti in 12 “Società degli interessati”, riunite poi in una Congregazione degli scoli interni, per la manutenzione delle opere di scolo. Secondo il regolamento delle Società di interessati, emanato il 20 maggio 1806, «tutti i fondi che godono del beneficio di uno scolo formano un comprensorio» e «tutti i possessori di fondi situati in un comprensorio formano una Società».
Con la successiva restaurazione del governo pontificio tutta la materia dei lavori pubblici e della bonifica venne riformata dal motu proprio di papa Pio VII del 23 ottobre 1817, con il quale si istituivano alcuni grandi Circondari idraulici, retti da Congregazioni consorziali. Il I Circondario Scoli Canal Bianco era suddiviso in due comprensori: il comprensorio superiore era costituito dal Polesine di Casaglia e dalle terre vecchie del Polesine di San Giovanni, le cui Società degli interessati si erano già unificate nel 1808; quello inferiore riguardava le terre della Grande Bonificazione fino al Tenimento di Mesola, inglobando dunque la Conservatoria e rendendo dopo secoli unificate le sue terre con le Terre vecchie. Amministrazione distinta aveva invece l’Assunteria di Codigoro, che amministrava i terreni situati tra il Po di Volano e il canale Galvano.
Il II Circondario racchiudeva gran parte dei terreni del Polesine di San Giorgio fino alle lagune comacchiesi ed era sottoposto alla omonima Congregazione consorziale entrata in carica nel 1821. Anche questo vasto comprensorio conteneva Assunterie (Argenta, Filo, Galavronara e Forcello) che dopo il 1865 si separarono a comporre due diversi organismi: il Consorzio idraulico di Argenta e il Consorzio di Galavronara e Forcello.
Organizzazione a parte ebbero i terreni a sud del Po di Primaro interessati dalla recente inalveazione del fiume Reno nel Primaro a Traghetto di Argenta e i terreni dei serragli di Bondeno, in gran parte ricadenti nel vasto comprensorio di Burana. Sempre con il motu proprio di Pio VII del 1817 vennero poi istituiti: a) il Consorzio idraulico di scolo Cavo Tassone che riguardava terreni di Vigarano Mainarda, Bondeno (Santa Bianca) e Finale Emilia (nel Ducato di Modena); b) il Consorzio di bonifica VI Circondario Canale di Cento con terreni ricadenti nelle province di Ferrara e Bologna; c) il Consorzio idraulico di scolo IV Circondario idraulico, con competenza su un territorio riguardante il Comune di Ferrara; d) la Congregazione consorziale Nuovo Scolo, che subentrava alla napoleonica Società degli interessati nel comprensorio tra Poatello e Reno e che infine (1933) si trasformerà in Consorzio di bonifica III Circondario; d) la Congregazione consorziale del V Circondario, che unificò dal 1817 la gestione dei precedenti tre serragli bondenesi di Carbonara, Redena e Pilastri.
Le riforme amministrative del periodo pontificio della Restaurazione disegnarono in fondo l’organizzazione idraulica di base dell’intero territorio ferrarese, destinata a durare oltre la creazione del Regno d’Italia. Le grandi modificazioni dell’assetto idraulico indotte dalle bonifiche meccaniche dopo il 1870 furono all’origine di due tra i mutamenti più significativi di questo ordinamento. Nel I Circondario la Società per la Bonifica dei Terreni Ferraresi, proprietaria di gran parte dei terreni della Grande Bonificazione, entrò in conflitto con i proprietari delle terre vecchie, che non intendevano condividere gli enormi oneri della manutenzione creati con il nuovo sistema di sollevamento meccanico a Codigoro. Con decreti del 28 giugno del 1883 e 29 settembre 1885 sorsero infatti due diversi enti: il Consorzio di bonifica Terre Vecchie e il Consorzio della Grande Bonificazione Ferrarese, operante nel comprensorio inferiore.
L’altro grande cambiamento nell’amministrazione idraulica del territorio ferrarese avvenne dopo il 1892 con l’avvio, grazie al finanziamento statale previsto dalle leggi Baccarini (1882) e Genala (1892), della bonifica di Burana e con la costituzione del Consorzio interprovinciale per la bonifica di Burana – Comitato esecutivo, a cui subentrò nel 1925 l’omonimo consorzio.
Come si può vedere dalle vicende delle diverse amministrazioni che si sono succedute nel territorio ferrarese, la difficile lotta contro il dominio delle acque ha imposto comunque una unità di intenti e un comune agire dei proprietari e degli agricoltori ferraresi. Gli inevitabili conflitti di interessi e i mutamenti politico-istituzionali non hanno nel tempo potuto del tutto cancellare la solidarietà che la nemica acqua aveva imposto a queste terre.
FC, 2011
Bibliografia
Consorzio di Bonifica del Polesine S. Giorgio - II Circondario - Ferrara, Realtà attuale di una bonifica antica, Ferrara, Sate, 1981; Franco Cazzola, La Bonifica del Polesine di Ferrara dall'età estense al 1885, in La Grande Bonificazione Ferrarese. vol. I, Vicende del comprensorio dall’età romana all’istituzione del Consorzio (1883), Ferrara, Sate, 1987, pp. 103-251; Consorzio della Bonifica Burana - Leo - Scoltenna - Panaro, Burana Leo Scoltenna Panaro. Vicende di Bonifica, Maurizio Tosi editore, Modena, 1992; Archivi storici nei consorzi di bonifica dell’Emilia-Romagna. Guida generale, a cura di Euride Fregni, Bologna, Pàtron, 2003.
Il territorio ferrarese, costituito da una pianura che nell’Ottocento era ancora in buona parte coperta da valli e paludi e che è situato a pochi metri sopra il livello del mare, non poteva certo dirsi vocato alla viticoltura e alla produzione del vino. Eppure la vite e il vino erano presupposti importanti e necessari del sistema agrario ferrarese. Basterà ricordare che il vino, grazie alla modesta quantità di alcool in esso contenuta, rappresentava pur sempre la bevanda più igienica che gran parte della popolazione avesse a disposizione. L’acqua dei pozzi, che spesso attingevano a falde verso le quali penetravano anche scarichi di latrine con sistemi a dispersione, non era quanto di meglio si potesse portare in tavola per bere e cucinare. Nell’anno 1855 una grave epidemia di colera colpì il Ferrarese, presumibilmente assecondata dalle scarse condizioni igieniche dell’acqua. Da alcuni anni la diffusione dell’infezione crittogamica aveva fortemente ridotto la capacità produttiva delle viti e spinto all’insù i prezzi del vino. «La mancanza, o per meglio dire la straordinaria scarsezza del vino, com’io opino – notava l’agronomo don Michele Cariani – fu una delle cause messe in opera dall’Onnipotente per castigare anche gli abitanti di questa fertilissima Provincia col terribile flagello del colèra». Nella provincia si consumavano vini bianchi generalmente prodotti nella Romagnola ferrarese e nel Centese. Nel Ferrarese centrale, sempre stando a quanto affermava intorno agli anni 1870 il Cariani, «il vino è quasi tutto negro fatto coll’uva d’oro». E l’uva d’oro, si pensava anche allora comunemente col sostegno delle memorie del Frizzi, era stata introdotta dalla Borgogna dall’ultimo duca estense Alfonso II ed aveva avuto diffusione in tutto il Ferrarese, sostituendo il precedente vitigno detto Albanella. Possiamo oggi ritenere abbastanza improbabile questa versione circa l’ingresso dell’uva d’oro nel territorio ferrarese.
In realtà, ancora nella prima metà dell’Ottocento nelle campagne ferraresi si incontravano molte varietà di uva, bianche e nere, le stesse di cui parlava mezzo secolo prima l’abate Vincenzo Chendi. Quest’ultimo ci ricorda che l’uva d’oro era chiamata «uva forte» e che il miglior momento per la vendemmia era a San Michele. Ma accanto ad essa si coltivavano il nerone o melicone, la cremonese, il coccobello, il berzimino, le lambrusche.
Almeno 14 erano le varietà di uve bianche ricordate dal Cariani come esistenti ai tempi della sua fanciullezza: il moscatello bianco, la lugliatica, il trebbiano, la grila bianca, l’albanone grosso, l’albanella, la melina, la forzella, la speziala o bodelona, lo sbibbio bianco, l’uva marona, l’uva di terra promessa, la pellegrina o uva aceto, la boscareccia bianca dai piccoli chicchi. Tra le uve nere erano presenti il moscatello negro, l’uva d’oro, il berzemino, il melicone (detto anche varone o sgurbione), il meliconcello, la cremonese, lo sbibbio nero, l’ovetto (specie di berzemino o lambrusca selvatica), l’ovino nero detto lambrusca. Vi era inoltre la presenza di uve rosse, tra cui la rossiola, la grila nera, la bazzugana, la brombesta e l’uva passerina. Non sembri inutile questa lunga elencazione di vitigni presenti sul territorio ferrarese. Servirà a ricordare la grande biodiversità di cui era allora custode il mondo agricolo e che nel corso dell’Ottocento ebbe ad attenuarsi. Per le ragioni ricordate l’obiettivo era anche ottenere la maggior quantità possibile di uva e di vino, ciò che non andava certo in direzione della qualità del vino prodotto, ma non si può escludere anche un intento degli agricoltori di ottenere, grazie alla grande varietà di uve coltivate, anche una sorta di assicurazione contro eventuali calamità o contro annate scarse di qualcuna delle varietà più diffuse. Il secolo XIX portò invece alla drastica riduzione delle varietà con la adozione e il predominio dell’uva d’oro come prodotto per la vinificazione, anche se la pianta di uva d’oro esigeva cure più intense e non giungeva a superare i 40 anni di età, rendendo necessaria una continua produzione di propaggini per sostituire le piante morte. Ben più longeve erano le viti di melicone, di albanella, di forzella, di pellegrina.
Proprio l’Ottocento conobbe le infezioni crittogamiche e dopo il 1877 vide anche l’arrivo della fillossera (Philloxera vastatrix), un insetto proveniente dall’America che aveva distrutto vigneti in Spagna, Catalogna, Francia, Sardegna e aveva raggiunto anche la penisola italiana. La soluzione che dopo molto tempo fu trovata al problema della fillossera fu il reinnesto delle viti locali su piede di vite americana, la stessa che aveva importato in Europa l’insetto devastatore, restandone però immune. Il reimpianto comportò una drastica selezione delle varietà coltivate, favorita peraltro dal Comitato ampelografico nazionale italiano costituito dal 1872 presso il Ministero di agricoltura industria e commercio.
Il rincaro del vino e le massicce importazioni di vino italiano da parte della Francia privata dei suoi vigneti si tradussero in una forte espansione della viticoltura italiana. Anche a scala locale ferrarese l’obiettivo per gli agricoltori diveniva quello di ottenere la maggior quantità possibile di uva e di vino, ciò che non andava certo in direzione della qualità del vino prodotto, e che spiega anche l’adozione sistematica dell’uva d’oro. Fece anche la sua comparsa nelle campagne ferraresi di fine Ottocento l’uva americana Clinton, un ibrido ottenuto da un incrocio tra la vitis riparia e la vitis labrusca (entrambe americane) che offriva alte produzioni e buona resistenza alla fillossera, ma la cui coltivazione venne in seguito proibita, anche perché le sue uve non erano provenienti dalla vitis vinifera, limitando il suo uso solo come portainnesti. Il vino Clinton insieme all’uva d’oro divennero così le piante da vino più diffuse. Il Clinton soprattutto nel Centese e nell’Alto Ferrarese, mentre l’uva d’oro dava vita ad una viticoltura specializzata nella produzione di vino Fortana, detto comunemente vino del Bosco Eliceo, proveniente cioè da quella fascia di sabbie e dune dove fino alla metà del 1600 esisteva una grande lecceta usata dagli Estensi per la caccia e in seguito estirpata per dare ai comacchiesi un poco di terra da coltivare a grano.
L’altro aspetto importante nella storia della viticoltura ferrarese riguarda i sistemi di allevamento della pianta. Erano certamente presenti forme tradizionali di vigneto specializzato relegate in piccoli appezzamenti prossimi alle abitazioni coloniche o nei pressi delle gronde fluviali, oppure nei broli (frutteti) annessi alle case padronali. Si trattava di forme di allevamento della pianta non molto dissimili da quella che possiamo ammirare nel riquadro del mese di marzo nel salone dei mesi di palazzo Schifanoia: viti a pergolato oppure viti maritate a qualche albero nei pressi di un villaggio. Molti vigneti erano collocati nell’immediata periferia urbana ed anche in piccoli e grandi orti dentro le mura cittadine, specialmente nella parte di città ancora vuota della addizione erculea e negli spazi verdi annessi ai grandi monasteri per il consumo dei religiosi.
La parte di gran lunga preponderante della produzione vinicola ferrarese proveniva tuttavia dalle aperte campagne col sistema della piantata di viti maritate a filari di sostegni vivi, in genere olmi, aceri campestri (oppi) o pioppi. Questo sistema, che si generalizza a partire dalla fine del Medioevo in tutta la pianura padano-veneta, consentiva alla vite di arrampicarsi sugli alberi e di allontanare così i suoi frutti dagli umidi suoli della valle padana. Al contempo, la fitta dotazione arborea dei campi offriva copioso fogliame utile per nutrire il bestiame da lavoro, la legna necessaria per il riscaldamento nei mesi invernali, pali, travi e correnti per costruire, oltre a svariati frutti come noci, ciliegie, prugne ecc.
Le campagne dove era presente l’arborato-vitato, ossia la coltivazione promiscua di cereali, legumi, canapa e uva da vino maritata agli alberi in filare erano dette nel Ferrarese terre abbragliate. Queste avevano un maggiore valore d’estimo rispetto alle terre campagnole, ossia agli arativi nudi. Nelle terre abbragliate una serie di appezzamenti (pezze) affiancati dava origine al morello detto anche traverso. Pezze affiancate per il lungo erano dette invece filari. Più morelli o più filari che scolavano insieme in una affossatura consorziale formavano invece la braglia, di dimensioni variabili in relazione alla rete di scoline esistente. Una sola o più braglie definivano lo spazio coltivato della possessione ferrarese. Da ricordare infine che la pezza ferrarese era molto grande, con una larghezza di circa 50 metri e una lunghezza di 100 metri.
Quanto alle forme con cui la vitis vinifera veniva collegata all’albero il Ferrarese conosceva due modi principali: a cavalletto (o alla bolognese) e a strena. Il sistema a cavalletto era applicato di preferenza a terreni ancora non ottimali per quanto riguarda il cosiddetto franco di coltivazione, ossia la parte superficiale destinata alle piante erbacee. La striscia di terra destinata a portare gli alberi e le viti a cavalletto era larga circa 15 piedi (6 metri) ed era affiancata da due profonde scoline laterali che servivano anche la pezza. Quest’ultima era intervallata da cavedagne o capezzagne erbose per il transito dell’aratro e dei carri mentre le scoline proseguivano sottopassando la cavedagna mediante tombini a fianco delle pezze successive fino a raggiungere il capofosso. Il rapido sgrondo delle acque piovane era qui essenziale anche per la sopravvivenza delle viti.
Il sistema ferrarese a strena trovava spazio in migliori condizioni di franco di coltivazione e di permeabilità dei suoli. La strena occupava così una striscia più ridotta di circa 6 piedi (2,50 metri) di larghezza, eliminando anche una delle due scoline laterali del sistema a cavalletto. Restavano anche in questo sistema le funzioni di sgrondo delle acque svolte dalle cavedagne.
Si può comprendere come anche la sistemazione dei campi nelle campagne ferraresi dell’Ottocento finisse per unire ed intrecciare inscindibilmente tra loro la produzione di cereali (grano, mais) di legumi e piante industriali (canapa, poi bietola), alla produzione del vino come bevanda e alimento primario, all’allevamento del bestiame da lavoro e alle esigenze energetiche della famiglia contadina.
Le tecniche di vinificazione domestica erano abbastanza primitive, rivolte a sfruttare fino all’ultimo chicco l’uva prodotta. La descrizione delle operazioni di vinificazione che ci fornisce nel tardo Settecento l’abate Vincenzo Chendi è esemplare in proposito. Trascorsi 8 giorni dall’inizio della fermentazione (bollitura), il nono giorno il vino veniva travasato dai tinazzi di pigiatura nelle botti. Nei tinazzi si versavano poi alcuni mastelli di acqua per ottenere il mezzo vino. Una volta spillato questo, ulteriori aggiunte di acqua davano il secondo ed anche terzo bollito, bevanda di pronto consumo ma di poca sostanza. «Questi bolliti buoni – nota il Chendi – serbansi ad uso della famiglia, o pure si vendono, o si mescolano bevendo nel Pillone o Pistone, o Fiasco, e danno la spinta ad un giorno di più per avere sempre più vino schietto da esitare». Anche il vino ferrarese aveva dunque, almeno in parte, una destinazione per il mercato. Agricoltori, coloni e salariati avevano ogni giorno sul loro desco soprattutto quel vino bollito, che di vino aveva probabilmente solo il colore ceduto dalle graspe.
FC, 2012
Bibliografia
Domenico Vincenzo Chendi, L’agricoltor ferrarese in dodici mesi secondo l’anno diviso a comodo di chi esercita l’agricoltura, In Ferrara, nella Stamperia Camerale, 1775; Michele Cariani, L’agricoltura ferrarese in pratica, ovvero Guida per dirigere ed eseguire i lavori campestri (…) opera di un vecchio agricoltore ferrarese, Ferrara, Taddei, s.d.; Giuseppe Ragazzi, Sistemazione ferrarese delle campagne “abbragliate”, Ferrara, SATE, 1942. Franco Cazzola, Disboscamento e riforestazione «ordinata» nella pianura del Po: la piantata di alberi nell’economia agraria padana, secoli XV-XIX, «Storia urbana», n. 76-77, 1996, pp. 35-64; Marcello Bertelli, L’Uva d’Oro. La vite e il vino nella storia e nella letteratura ferrarese, Ferrara, Cartografica, 2001.
Il processo di specializzazione zootecnica e foraggera nelle terre del Ferrarese è strettamente legato alle condizioni dell’agricoltura. Infatti, all’epoca dell’Inchiesta Agraria di Jacini, nelle pianure delle terre basse erano ancora estese la coltivazione del mais, frumento e cereali minori, mentre era in diminuzione il patrimonio boschivo a favore di colture e dell’appoderamento.
Questo processo continuò soprattutto nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia, quando nel Ferrarese si resero necessari importanti lavori di bonifica al fine di redimere terre alle piene del Po. Se per oltre duecento anni, fino alla fine del XIX secolo, il bestiame da stalla rimaneva limitato all’allevamento dei bovini da lavoro, soprattutto nei fondi a mezzadria e a boaria, con gli interventi di bonifica avvenne un passaggio epocale: migliaia di terre prima denominate “valli” furono in poco tempo coltivate a seminativi e foraggi. In questo modo, grazie alla specializzazione delle colture e all’uso sempre crescente di concimi chimici, l’agricoltura ferrarese poté conoscere una nuova dimensione degli allevamenti e delle colture foraggere.
Per avere l’idea di com’era distribuito il patrimonio zootecnico tra Otto e Novecento è interessante analizzare uno studio condotto da Pietro Niccolini che, attraverso le statistiche di Scelsi, sosteneva che nelle campagne ferraresi nel 1869 vi erano 40 bovini per chilometro quadrato, 29 ovini, 8 equini e 8 suini, mentre in tutta la provincia i bovini erano 70.300, gli ovini oltre 50.00, i suini circa 15.000 e gli equini oltre 14.000. Il loro prezzo si aggirava tra le 550 lire del toro e del bue, le 400 lire del manzo e della vacca e del cavallo, le 350 lire del mulo, le 200 lire del manzetto, le 125 lire del vitello e del suino da ingrasso e le 15 lire della pecora. La pastorizia era largamente presente in regione, anche se concentrata soprattutto nelle zone di collina: a 105.000 capi di greggi stanziali, si affiancavano 35.000 capi di greggi migranti, molti dei quali scendevano a pascolare nel Ferrarese.
Nel 1873 il valore complessivo del bestiame appartenente ai proprietari ferraresi ammontava a circa 29 milioni di lire. I rilevamenti successivi, nel 1906, evidenziano il mutamento delle campagne ferraresi a favore del contratto di boaria e della conduzione capitalistica con salariati, giornalieri e avventizi: si incrementavano, congiuntamente, la disponibilità di terre, la produzione agricola e la dotazione di bestiame, ma anche il disagio dei lavoratori. Mentre, nel 1908, la dotazione di animali nelle aziende agricole ferraresi ascendeva a circa 200.000 capi, suddivisi tra equini in numero di oltre 13.500, bovini per oltre 100.000 capi, vacche per oltre 55.000 capi, pecore per oltre 44.000 capi.
Erano presenti nelle stalle ferraresi anche tori, buoi, muli, cavalli in numero considerevole, per un valore complessivo pari a 110 milioni di lire, con una presenza media per chilometro quadrato di superficie agraria di circa 7 equini, 56 bovini, 15 suini e 22 ovini.
Nello stesso periodo il valore della proprietà fondiaria della provincia ammontava a circa 800 milioni di lire, mentre la produzione delle colture riferibili ai prati, erba medica, pascoli e colture diverse utili al bestiame ascendevano a oltre 3 milioni di quintali annui. In tutti i periodi presi in esame va considerata, inoltre, la presenza e l’allevamento di polli, galline, tacchini e faraone, anche se queste non venivano censite, figuravano in maniera importante nelle aziende agricole ferraresi.
In definitiva, se nel 1875 il totale della superficie agraria provinciale era coltivata per 78.000 ettari, 66.000 ettari di terreni erano prativi e 89.000 ettari erano valli; nel 1906 la superficie agraria passò a 198.000 ettari, mentre quella dei terreni vallivi e improduttivi scese a 78.000 ettari.
Nello stesso periodo la produzione del frumento passò da una superficie di 49.000 a 60.000 ettari e la disponibilità di foraggi principali per il bestiame crebbe tra il 100% e il 344%. Allo stesso modo si sviluppò la produzione dei foraggi secondari, la paglia, la stoppia, i melicari, il fieno, la bietola da foraggio, molto oltre i livelli del 1875, quando erano disponibili oltre 900.000 quintali di paglia, 160.000 quintali di stoppia, 14.000 quintali di melicari, 72.000 quintali di cannello e 580.000 quintali di vegetali vallivi, per un totale di oltre 2.500.000 quintali di mangimi.
Dalla fine del secolo, inoltre, un grande apporto venne dato dalla bieticoltura, in quanto le “polpe” divennero mangime per i bovini e per i suini. Quindi, se nel 1869 la dotazione zootecnica comprensiva di equini, bovini e suini era pari a circa 100.000 capi, con la prevalenza di bovini ed un valore complessivo di 30 miliardi, nel 1908, il totale riferito alla stessa dotazione ascendeva a circa 150.000 capi, con la prevalenza di bovini e un valore complessivo di 110 miliardi.
Nel corso degli anni la media raggiunta nel Ferrarese per il patrimonio zootecnico, fu di circa 50 capi per chilometro quadrato di superficie territoriale, analoga a quella del Ravennate, del Bolognese, del Polesine e del Mantovano, con una densità maggiore verso la media pianura e minima verso il litorale. La razza maggiormente diffusa era quella pugliese, con maggiori attitudini al lavoro ed un discreto apporto di carne, mentre l’allevamento lattifero era localizzato tra Bondeno, Ferrara, Mainarda, Portomaggiore, con una discreta produzione di latte.
Tra gli allevamenti minori era prevalente quello dei suini, mentre l’allevamento ovino fu gradualmente abbandonato, in quanto legato ai pascoli permanenti che andarono via via contraendosi, e quindi anche la relativa transumanza degli stessi tra la pianura emiliana, l’Appennino modenese e l’area deltizia del Po. Infatti, fino agli inizi del XX secolo, nel periodo autunno-invernale, settore di ibernazione delle mandrie ovine era la zona litoranea del Ferrarese, ma anche nel Comacchiese era naturale trovare branchi transumanti sugli argini erbosi delle valli, dove gli “svegratori” modenesi e toscani affittavano una stanza presso le aziende degli agricoltori locali e vi risiedevano con la famiglia per tutto l’inverno, distaccandosi sempre più dalla montagna.
In definitiva, i cambiamenti avvenuti nelle campagne ferraresi in oltre mezzo secolo, dovuti al nuovo sistema politico derivante dall’Unità del Paese, alle trasformazioni indotte dalla crisi agraria di fine Ottocento, alla meccanizzazione e alle innovazioni agronomiche e, non ultimo, alla bonifica delle “terre nuove”, produsse un nuovo sistema, colturale, sociale e territoriale, che influì in maniera determinante nel nuovo assetto agricolo e industriale provinciale tra l’inizio del XX secolo e la fine del primo conflitto mondiale.
MC, 2012
Bibliografia
Pietro Niccolini, Ferrara agricola, cenni storici e statistici, Ferrara, Taddei, 1926; Mario Ortolani, La pianura ferrarese, «Memorie di geografia economica», a. VIII, luglio-dicembre 1956; Mario Zucchini, L’agricoltura ferrarese attraverso i secoli. Lineamenti storici, Roma, Volpe, 1967; Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di Piero Bevilacqua, vol. I, Spazi e paesaggi, Venezia, Marsilio, 1989; Franco Cazzola, Storie delle campagne padane dall’Ottocento a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 1996.
Negli anni Quaranta del XIX secolo, l’agricoltura italiana, stretta dalle sollecitazioni tecniche delle rivoluzioni agricole europee e dalla competizione sul mercato internazionale, cercò nuove vie di sviluppo e nei vari Stati italiani, ma soprattutto nella pianura padana, per migliorare la coltivazione delle terre si aprì un vivace dibattito riguardante le innovazioni tecniche e la sperimentazione di nuovi attrezzi sempre più specializzati da introdurre in agricoltura.
La prima esposizione industriale italiana, inaugurata a Firenze nel 1861 e dedicata alla meccanica agraria, rivelò una inaspettata vitalità, in quanto non si trattava di tentativi sporadici e isolati, ma era esibita una meccanica agricola ormai sviluppata. Infatti, le molte innovazioni messe a punto fin dall’inizio dell’Ottocento, furono disponibili, modificate e utilizzate solo dopo la seconda metà del secolo. In prima istanza, esse riguardarono il miglioramento degli attrezzi agricoli fondamentali; in un secondo momento questi furono dotati di parti metalliche, quindi più resistenti ai lavori nei campi; infine si ebbe la costruzione di nuovi attrezzi agricoli, emulati da quelli stranieri.
Altri punti di forza per la diffusione del progresso agricolo nelle campagne italiane furono la pubblicazione di diversi periodici specializzati che divulgarono nuove idee ed esperienze, la costituzione di “Società d’Incoraggiamento”, la trasformazione delle accademie settecentesche in centri di discussione e intervento agronomici, l’apertura di scuole di formazione agraria alle quali venivano associati terreni e officine sperimentali.
Nelle tenute dell’Italia settentrionale sin dai primi decenni dell’Ottocento iniziarono a circolare, oltre alle idee, anche gli agronomi, i semi e i nuovi attrezzi. Il ramo della meccanica rurale che per primo vide grandi innovazioni fu quello degli aratri e degli strumenti per la lavorazione del suolo. Grazie ai “Comizi agrari”, nell’area padana si iniziò ad adottare il charrue belge, fedele riproduzione straniera, mentre si diffuse anche il “coltro toscano”, adattato anch’esso da modelli stranieri: nuove officine meccaniche costruivano questi aratri e ne garantivano la manutenzione, mentre “riunioni agrarie” ne propagandavano l’efficienza.
Questa nuove temperie culturale e sociale toccò anche il territorio ferrarese, che dagli anni Quaranta divenne un banco di prova delle più importanti innovazioni che avrebbero contrassegnato l’agricoltura italiana nel periodo postunitario. Già in età napoleonica si formularono diversi progetti che avrebbero cambiato radicalmente la fisionomia delle valli e delle terre più esposte all’azione dei fiumi e del mare. Oltre a lavori pubblici rivolti al risanamento urbano, alla costruzione di un macello e alla riorganizzazione delle attività portuali, tra il 1803 e il 1810 gli ingegneri francesi predisposero anche un progetto per congiungere Comacchio alla terraferma ferrarese e per costruire una grande salina. Creata nella parte più alta delle valli, vicino al mare a sud della Torre Rossa, cinta da un argine per proteggerla dalle acque del Reno e del Po, la salina avrebbe caratterizzato per tutto il XIX secolo l’economia valliva, che si stava gradualmente evolvendo in un orizzonte prettamente industriale.
Promotore della centralità del Ferrarese in questo processo di innovazione fu la nascita nel 1843 dell’Istituto Agrario di Ferrara, diretto fino al 1858 dall’agronomo padovano Luigi Botter, che fu l’artefice e il promotore dell’innovazione tecnica. L’Istituto Agrario era organizzato con corsi teorici biennali, che prevedevano la partecipazione di studenti e uditori. All’Istituto erano annessi un “gabinetto agrario”, che custodiva attrezzi, macchine agricole e strumenti per l’analisi del terreno, un “orto agrario”, per la prova delle nuove sementi, un “podere sperimentale”, concesso dal Comune per l’esercizio dell’attività pratica. Nel 1845, anche attraverso le “conferenze agrarie”, l’attività dell’Istituto conobbe un salto di qualità.Luigi Botter focalizzò il suo interesse verso i sistemi di aratura: nel Ferrarese erano molto diffusi il “coltro toscano” e l’aratro Sambuy (piemontese), ma si diffuse rapidamente, a partire dalle terre di Tresigallo, l’aratro Dombasle. Grazie alle modifiche apportate da Botter, quest’ultimo si adattava meglio alle terre pesanti e argillose della pianura ferrarese. L’azione dell’agronomo padovano si spinse ancora oltre: per agevolare i proprietari nell’acquisto del nuovo aratro Dombasle-Botter, egli diede vita ad una officina meccanica-agraria che assemblava e montava i pezzi dell’aratro, prodotti nella fonderia di Bologna.In questo modo, nel 1846, pochi mesi dopo le prove effettuate sul podere sperimentale dell’Istituto, vennero venduti e commissionati oltre 50 nuovi aratri: nei due anni successivi furono oltre 400 nel solo Ferrarese, ma si diffusero anche nel Padovano, nel Modenese e nel basso Veneto. All’altezza dell’Unità gli aratri Dombasle-Botter erano ormai 5.000, mentre i “coltri toscani” si attestavano a circa 3.000.
Oltre a promuovere il nuovo tipo di aratro, Botter si dedicò al miglioramento delle trebbiatrici. Già dal 1838 era in circolazione nelle campagne ferraresi la macchina ideata dal bresciano Giulitti, ma nel 1847 Botter introdusse nel podere sperimentale dell’Istituto uno sgranatore meccanico per il mais, adattato dal toscano Ridolfi su modello americano. Dopo averlo sperimentato, Botter lo mise a disposizione degli agricoltori con un sistema di noleggio, uno dei veicoli più efficaci ed economici di introduzione delle innovazioni tecniche in agricoltura. Attraverso «L’Incoraggiamento», il giornale ufficiale dell’Istituto Agrario, l’agronomo riuscì a propagare le nuove idee riguardanti le macchine a vapore trasportabili: nel 1855 furono sperimentate una macchina idrovora per il drenaggio delle acque (a San Vito di Ostellato) e una trebbiatrice a vapore (a Ro Ferrarese), l’anno seguente un “trebbiatoio locomobile a vapore”, costruito su progetto americano della milanese Schlegel (nel podere sperimentale dell’Istituto, poi affittato ai proprietari).
Ancora nel 1856 veniva creata a Ferrara la “Società Agricola-Industriale” per la preparazione meccanica della canapa, la trebbiatura a vapore del grano e del riso, per i prosciugamenti meccanici e per l’irrigazione di piccole superfici. Grazie a Botter e all’Istituto, Ferrara avviava un processo di innovazione e di meccanizzazione in agricoltura destinato a diffondersi dopo l’Unità.
Nello stesso periodo, a queste innovazioni in agricoltura si affiancarono quelle introdotte per la bonificazione delle paludi ferraresi: in questo campo la novità più importante dell’Ottocento fu l’introduzione delle idrovore a vapore per il sollevamento meccanico delle acque. La prima idrovora a vapore fu costruita nel 1857 a Baura, sul Po di Volano. Altri tentativi vennero eseguiti in alcune valli del primo Circondario, ma i risultati furono piuttosto insoddisfacenti, sia dal punto di vista tecnico, sia per le insufficienti risorse finanziarie. Nonostante le difficoltà, la costruzione dell’idrovora di Codigoro, fornita di macchinari inglesi, procedette celermente e divenne una delle più grandi del tempo. Anche nel secondo Circondario, il Polesine di San Giorgio, vennero attivati impianti di sollevamento, sempre su progetto inglese. Le bonificazioni resero possibile l’introduzione di nuove macchine nei terreni prosciugati: apparecchi Howard, apparecchi di aratura a vapore Fowler e Sack, oltre ai nuovi aratri meccanici dei fratelli Violati-Tescari di Ariano Polesine, meno ingombranti, meno costosi e soprattutto più veloci da trasportare e adatti alle nuove terre bonificate. Vennero introdotte anche le seminatrici Sack, gli “spandiconcimi” (data la necessità della concimazione delle “terre nuove”) e macchine da raccolto: falciatrici, mietitrici, legatrici, presse da foraggio, decanapulatrici, cernitoi. Nello stesso periodo iniziarono a circolare nelle campagne, a partire dalle zone bonificate, rimedi contro l’invasione dei topi campagnoli (l’arsenico), le malattie crittogamiche delle coltivazioni e la “ruggine” dei cereali (calce e antiparassitari), vennero sperimentati i nuovi concimi azotati, per migliorare e aumentare le rese. In questo contesto, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, si svilupparono nuove aziende: le fornaci dotate di forni Hoffman, uno stabilimento ceramico con notevoli macchinari, mulini e opifici per la raffinatura dei cereali, che utilizzavano macchine provenienti dalle officine Schlegel di Milano e dalla ditta Roberts-McAdam di Belfast. In questo periodo si svilupparono anche diversi canapifici ed ebbe impulso, grazie all’introduzione massiccia nelle nuove terre bonificate della barbabietola da zucchero, l’industria saccarifera.
MC, 2012
Bibliografia
Vittorio Peglion, Le bonifiche ferraresi, Ferrara, Bresciani, 1910; Pietro Niccolini, Ferrara agricola, cenni storici e statistici, Ferrara, Taddei, 1926; Mario Zucchini, L’agricoltura ferrarese attraverso i secoli. Lineamenti storici, Roma, Volpe, 1967; Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di Pietro Bevilacqua, vol. I, Spazi e paesaggi, Padova, Marsilio, 1989; Rossano Pazzagli, La meccanizzazione delle campagne padane nel dibattito agronomico preunitario, in La campagna a vapore. La meccanizzazione agricola nella Pianura Padana, a cura di Angelo Varni, Rovigo, Minelliana, 1990.
Dagli anni Sessanta dell’Ottocento erano stati diversi e numerosi i tentativi di formare cooperative di produzione e lavoro, progetti coraggiosi che fallirono nel giro di pochi anni non riuscendo a rafforzarsi per la generale mancanza di fondi da investire. Tra cooperative di produzione e lavoro – dove i soci sono al tempo stesso produttori e lavoratori – e cooperative di consumo – dove i soci-consumatori acquistano e rivendono beni di qualità a condizioni migliori e senza intermediari –, non furono facili gli esordi della cooperazione ferrarese, che tuttavia rappresentò sempre una realtà in forte movimento.
Il germe della cooperazione ferrarese, con i primi esperimenti nel campo del consumo, è da ricercare nella più antica Società Operaia Maschile di Mutuo Soccorso, creata nel 1860, che promosse un Forno Sociale, aperto a Ferrara tre anni più tardi grazie ai fondi provenienti dal prestito sociale con il concorso dell’amministrazione comunale. Se la vita del Forno fu breve e complicata, l’esperienza fu basilare per l’avvio di un Magazzeno Cooperativo di Consumo, aperto al pubblico il 1° settembre 1868 e attivo per dieci anni tra mille difficoltà fino alla morte del presidente, Felice Cavalieri (fondatore, tra l’altro, della Banca Mutua Popolare di Ferrara). Inizialmente dedito alla vendita di farine e paste, già dall’ottobre seguente il magazzino allargò lo smercio a caffè, zucchero, sapone, aromati, amido, candele steariche, farina, fava ed orzo.
La prima cooperativa di produzione e lavoro della provincia nacque a Bondeno a seguito della rotta del Po (23 ottobre 1872) che aveva allagato quelle terre immobilizzando l’agricoltura; fondatore della Cooperativa delle Operaje Tessitrici di Bondeno Ferrarese fu l’allora assessore Gioacchino Napoleone Pepoli (ministro del governo Rattazzi e sindaco di Bologna, con residenza estiva presso Bondeno), sostenuto da Luigi Luzzatti (senatore e teorico della cooperazione), dal Comune e dalla marchesa Federica di Hohenzollern, moglie di Pepoli, che ebbe la presidenza della società. L’originale progetto prevedeva, a lungo termine, l’interazione tra agricoltura e industria anche tramite un’importante qualificazione del lavoro femminile, ma naufragò presto, nel 1877, a causa di un credito non riscosso.
La prima cooperativa di consumo di cui si ha notizia nel Ferrarese è quella di Cento, costituita nel 1875 e fallita sei anni più tardi.
In tutta la provincia nascevano via via associazioni di generi diversi: dall’Unione cooperativa di consumo i cui soci erano impiegati, professionisti, docenti e pensionati di Ferrara (1889; probabile derivazione dell’analoga Società di mutuo soccorso del 1871) all’Unione cooperativa rurale tra i dipendenti dell’azienda agricola “F.lli Spisani” di Cologna Ferrarese (1897), alla Cooperativa farmaceutica di Guarda Ferrarese (1897); dalla prima cooperativa di matrice socialista di Voghiera (1898) poi estesa a Voghenza, Ducentola e Gualdo (1901) con 150 soci e dalla quale ebbe origine alla cooperativa di consumo di Portomaggiore (1903), alle cooperative di consumo di Codigoro (1903, nata dalla Fratellanza Artigiana di Mutuo Soccorso), di Poggio Renatico (1903), di San Biagio d’Argenta (1904), alla nuova cooperativa di consumo di Boccaleone (1905).
Dal 1888 si erano formate in tutto il Ferrarese Società braccianti e Società braccianti e costruttori – associazioni ibride, in quanto a metà strada tra le cooperative di lavoro e quelle di produzione – associati in autogestione: tra il 1888 e il 1889 a Berra, Ferrara, Bondeno, Voghiera, Voghenza, Formignana, Roncodigà Cologna, Copparo, Serravalle, Guarda, nel Basso Ferrarese (la cui Sezione Po includeva i Comuni rivieraschi tra Copparo e Mesola), Casumaro, Argenta; nel 1890 a Vigarano, San Martino, Poggio Renatico; oltre a cooperative di sarti, di calzolai, di barbieri, a società cooperative come quella degli operai braccianti ed artieri di Villa di Guarda, Ro, Zocca, Francolino, Tamara (1890), per la costruzione di case economiche a Bondeno (1890) e di case operaie a Ferrara (1890); la società cooperativa braccianti di Ariano, Massenzatica, Santa Maria in Bosco (1891); la società cooperativa tra operai, braccianti, muratori e affini di Ferrara (1891)... e l’elenco potrebbe continuare coinvolgendo ogni centro della provincia.
L’intento delle classi meno agiate – in particolare braccianti e operai – di tramutare il proprio stato di necessità in una risorsa per modificare le cose, di assicurarsi “pane, libertà e giustizia”, ruotava attorno al cardine dell’esigenza di intervenire sul territorio per opere di pubblica utilità. E proprio sul finire dell’Ottocento il movimento cooperativo interpretava appieno quell’intento, mettendo in gioco operai e braccianti in prima persona per trasformarli in imprenditori di loro stessi.
Il 19 dicembre 1896 nacque una prima forma di consociazione nella Federazione delle Cooperative di Produzione e Lavoro della Provincia di Ferrara, Bologna e Ravenna con sede ad Argenta, che si rifaceva al modello della prima associazione bracciantile, quella di Ravenna fondata nel 1883.
Gli sconvolgimenti sociali di fine secolo, le proteste e gli scioperi sfociati in processi contro i dimostranti accusati di reati «contro la libertà del lavoro», misero all’angolo il movimento cooperativo, costringendolo a segnare il passo.
La materia della cooperazione diede adito a discussioni, a un lungo dibattito teorico, a polemiche tra socialisti e moderati, fino alla convocazione da parte della Federazione provinciale delle leghe tra i contadini del primo congresso dei cooperatori ferraresi, fissato per l’11 ottobre 1903. Il fine dell’incontro era di dare vita a una Federazione Provinciale delle cooperative di produzione e lavoro. Al primo congresso, che si tenne solo alla vigilia di Natale nei locali della Camera del Lavoro e vide nascere la Federazione (presidente ing. Ugo Mongini, segretario Raffaele Mazzanti), ne seguirono altri, più o meno condivisi, che si intrecciarono ai fatti nazionali (per esempio la guerra di Libia), creando schieramenti e ancora scissioni politiche tra i cooperatori.
In età giolittiana (1901-1913) i sodalizi della Federazione furono qualificati quali «tesoro di attività e di virtù», una ricchezza che, muovendo i primi passi tra associazioni di stampo mutualistico e soccorsista, aveva «introdotto l’idea e la pratica della solidarietà operaia» – come scrive Delfina Tromboni – in una tra le province italiane più povere, in un momento in cui il Ferrarese vedeva forti investimenti di capitali, per la maggior parte stranieri, nelle grandi opere di bonifica.
Tra complicate vicende politiche si era tenuto il V congresso provinciale delle cooperative il 31 gennaio 1914, che, secondo le cronache («La Scintilla», 8 febbraio 1914), aveva sollevato una «discussione vivace e contraddittoria» sulla cooperazione agricola, riconoscendo, infine, la debolezza della cooperazione di consumo, da accrescere mediante la realizzazione di un «magazzino centrale per il rifornimento delle cooperative della provincia», per il quale però servivano forti mezzi finanziari di cui «purtroppo» la cooperazione ferrarese non poteva disporre.
Iniziava così il declino, concluso in un paio di anni, della Federazione provinciale, mentre l’economia ferrarese era dominata dal neonato Consorzio provinciale delle cooperative di produzione e lavoro, fondato da 14 cooperative e operativo dal 1913 con la presidenza di Quirino Lugli e sotto l’esperta guida del direttore amministrativo Raffaele Mazzanti.
AG, 2011
Bibliografia
Renato Sitti, Italo Marighelli, Un secolo di storia del movimento cooperativo ferrarese, 1860-1960, Roma, Editrice Cooperativa, 1960; Anna Rosa Remondini, La cooperazione di consumo nella provincia di Ferrara dalle origini al 1972, Bologna, Clueb, 1982; Delfina Tromboni, Dal mutualismo alla cooperazione: il percorso ferrarese (1860-1960), in Emilia Romagna Terra di cooperazione, a cura di Angelo Varni, Bologna, Eta/Analisi, 1990; Delfina Tromboni, «A noi la libertà non fa paura...». La Lega Provinciale delle Cooperative e Mutue di Ferrara dalle origini alla ricostruzione (1903-1945), Bologna, il Mulino, 2005.
La pianura ferrarese, fin dall’età medievale, ha dedicato alla coltivazione del frumento e degli altri cereali le terre più asciutte e fertili disponibili. Le terre alluvionali, pianeggianti e fertili della bassa valle del Po avevano fondato sulla produzione dei grani gran parte della loro economia agraria ma in un quadro molto diverso rispetto alle regioni del Mezzogiorno. Il paesaggio agrario ferrarese attuale ha mantenuto questa “vocazione” granaria con eccellenti risultati produttivi. Tuttavia, risalendo indietro nel tempo e in particolare al secolo XIX, ben diversa ci si sarebbe presentata la fisionomia dei nostri campi. Dalla fine del Medioevo l’agricoltura ferrarese venne riorganizzandosi su unità aziendali medio-grandi (25-30 ettari) dette versuri a ricordarci la relazione tecnica fra superficie dell’arativo e tiro di animali che trainavano l’aratro (in dialetto ferrarese varsur). Ma l’agricoltura praticata sui versuri ferraresi, al cui centro stava spesso una grande superficie arativa detta braglia, era in realtà un’agricoltura promiscua, ossia capace di produrre numerosi altri generi utili, alimentari e non, e soprattutto in grado di produrre vino col sistema della piantata di alberi in filari ai bordi dei campi, sui quali erano maritate le viti. Nei terreni migliori del Ferrarese continuò così per tutto l’Ottocento e parte del Novecento quella economia «del pane e del vino» che già nel XVII secolo era stata glorificata nella famosa opera agronomica del bolognese Vincenzo Tanara L’economia del cittadino in villa (1644).
Oltre al frumento autunnale si coltivava il frumento primaverile detto marzuolo, insieme ad altri grani primaverili (marzatelli) come orzo e avena. L’avvicendamento biennale di uso tradizionale divideva l’arativo in due parti circa uguali (avanzoni), delle quali una ospitava il frumento e l’altra le colture primaverili. Nella rotazione agraria ferrarese già dalla fine del secolo XVI aveva fatto il suo ingresso stabile tra i marzatelli, sostituendo in gran parte il sorgo, anche il frumentone giallo, ossia il mais. Nell’Ottocento la polenta di farina di mais era ormai il cibo quotidiano dei contadini, specialmente dei boari, dei braccianti e dei giornalieri, sulle cui mense il buon pane ferrarese restava riservato alle ricorrenze festive. Affiancavano i cereali da pane e da polenta diverse varietà di leguminose, importanti negli avvicendamenti delle colture per la fertilizzazione dei campi da frumento ma anche quali risorse alimentari: fave, fagioli, ceci, cicerchie, lenti, lupini, piselli, lenticchie, ecc. Con il secolo XIX, dal centro di irradiazione del Centopievese si era diffusa poi con eccezionale rapidità sulle terre vecchie ferraresi anche la coltivazione di una pianta tessile di grande importanza come coltura mercantile: la canapa, di cui la provincia di Ferrara conquistò nell’Ottocento il primato produttivo nazionale.
Questa è dunque la fisionomia delle campagne della provincia all’aprirsi del XIX secolo. I tempi delle grandi trasformazioni tecniche, della chimica e dell’introduzione di macchine in ferro nel lavoro dei campi avrebbero tardato ancora qualche decennio, ma i mutamenti che investirono i rapporti di proprietà negli anni napoleonici impressero un movimento più veloce ai lenti ritmi di cambiamento dell’agricoltura tradizionale. Poco prima della metà dell’Ottocento alcune novità importanti cominciano ad essere percepibili. L’attivazione nel 1835 del catasto ad opera di papa Gregorio XVI aveva intanto fondato su basi più sicure la stima della qualità e del valore produttivo dei terreni, sollecitando nella pratica l’adozione di miglioramenti nei terreni classificati a basso valore intrinseco e gravati da una bassa imposta fondiaria. Ma bisogna anche ricordare che con decreto della Sacra Congregazione degli studi del 7 agosto 1841 venne istituita in Ferrara una Scuola teorico-pratica di agraria in un apposito locale dell’Ateneo. A dirigere questa scuola fu chiamato il dottore padovano Francesco Luigi Botter, molto attivo negli anni seguenti nel promuovere la diffusione tra i proprietari ferraresi degli aratri Dombasle in acciaio, da lui modificati per adattarli ai terreni locali. Egli fu anche promotore del podere sperimentale annesso all’Istituto agrario nel quale erano praticati esperimenti di coltivazione. La pubblicazione di un giornale agrario come «L’Incoraggiamento» e l’organizzazione di periodiche Feste agricole provinciali d’Incoraggiamento ad opera dello stesso Botter testimoniano che la volontà di dare impulso produttivo all’economia agraria ferrarese stava spianando la strada a innovazioni rilevanti anche in altri diversi campi.
Ancora Francesco Luigi Botter negli anni Cinquanta era stato incaricato dal Consorzio di bonifica del I Circondario di verificare i risultati dell’applicazione di macchine idrovore con ruota a schiaffo nel basso Polesine. Erano i prodromi delle grandi trasformazioni fondiarie che dopo il 1870 le macchine idrovore avrebbero indotto nel Ferrarese orientale con il prosciugamento meccanico di decine di migliaia di ettari di paludi. Le grandi bonifiche erano state in fondo avviate avendo intravisto la possibilità di conquistare al frumento vaste estensioni di “terre nuove”. Anche il grande tema della bonifica ci riporta dunque ai cereali. Sarà intanto opportuno un richiamo alle condizioni del territorio nell’età che precede l’unificazione nazionale.
Il catasto gregoriano aveva misurato nel Ferrarese una superficie di circa 232.000 ettari registrando le seguenti principali qualità di coltivazione:
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Seminativo alberato e vitato a grano e marzatelli Ha 41.335
Canapule alberato e vitato Ha 15.881
Seminativo alberato e vitato con riposo Ha 1.008
Seminativo a grano e marzatelli Ha 12.619
Canapule a vicenda Ha 2.043
Totale seminativi Ha 72.886
Prati naturali e prati acquastrini Ha 32.750
Pascoli boschivi, e pascoli semplici Ha 32.781
Totale prati e pascoli Ha 65.531
Valli di canna Ha 42.856
Valli salse da pesca Ha 45.161
Totale zone umide Ha 88.017
Orti, pometi, casamentivi e sterili Ha 5.792
In complesso Ha 232.226
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Si può notare che la coltura promiscua, cioè l’alberato e vitato, con cereali, marzatelli e canapa a vicenda costituivano il centro del sistema agrario provinciale, mentre prati, pascoli e valli dolci e salse occupavano ancora oltre 2/3 del territorio provinciale. Con un calcolo approssimativo, tenendo conto dell’avvicendamento biennale, si può pensare che il frumento, come coltura centrale, occupasse annualmente almeno 35.000 ettari.
Il ciclo di produzione del frumento segnava il calendario dei principali lavori agricoli. Da settembre a tutto ottobre, secondo il prospetto fornito da Andrea Casazza sul suo Stato agrario economico del Ferrarese (1845), si aravano le terre che avevano ospitato canapa e mais; si seminava a mano, si spianava il terreno coprendo la semente ed erpicando per liberare il suolo da gramigne; verso metà aprile bisognava roncare il frumento, ossia estirpare le erbe infestanti; dalla metà di giugno ai primi di luglio si eseguiva la mietitura, la creazione dei covoni, il trasporto all’aia, la trebbiatura, vagliatura e messa in granaio del prodotto.
Il ciclo del mais era più lungo in quanto si avvicendava l’anno seguente al frumento. Dopo segate le stoppie del grano si dovevano arare in profondità i terreni nel mese di agosto. In novembre seguivano la concimazione e una seconda aratura lasciando che il gelo purgasse la terra. Nel marzo dell’anno successivo il terreno veniva spianato con l’erpice e ai primi di aprile avveniva la semina con successiva copertura dei semi a erpice. Molto lavoro umano con la zappa era richiesto da questa pianta per liberare le pianticelle appena nate dalle male erbe e a maggio si rendeva necessaria una seconda sarchiatura per rincalzare o diradare se vi fossero piante troppo fitte. Verso metà maggio si ricorreva alla zappa per la terza volta per estirpare male erbe, rincalzare e creare ai lati una piccola cavità per raccogliere l’acqua piovana dei mesi estivi. A settembre avveniva infine la raccolta, la sgranatura a mano, la vagliatura e la messa in magazzino. Come si vede, la richiesta di lavoro umano del mais era di molto superiore a quella del frumento e, per lunga tradizione, chi eseguiva la zappatura aveva diritto ad un terzo del raccolto. Braccianti, castaldi e boari trovavano dunque da questa fatica un ritorno economico, che contribuiva a rendere il mais, così come nel Lombardo-Veneto e nel Piemonte, coltura principale dell’annata agraria.
Ricorriamo ancora ad Andrea Casazza per valutare un bilancio economico di un’azienda tipica ferrarese della metà Ottocento che produce come colture principali frumento, mais e canapa, oltre al vino, alla legna e alle coltivazioni minori. In un tipico versuro ferrarese di 300 staja, ossia 32,6 ettari, almeno un ettaro viene occupato dal casamentivo rusticale (oltre agli edifici di abitazione e alle stalle-fienili, pozzo, orto, aia, vivaio, pollai, ecc.). Altri 5 ettari sono destinati al mantenimento del bestiame da lavoro (8 a 12 buoi). Segue l’arativo arborato e vitato suddiviso nei due avanzoni uguali di circa 13 ettari ciascuno. Il primo ospita il frumento e il secondo è ripartito per un terzo a canapa e i restanti due terzi al mais e ai cereali minori e legumi.
Tenendo conto che la semina richiedeva circa 53 staja di grano (2,7 ettolitri) e il rendimento medio era fissato in sette sementi per seme il prodotto finale del grano offriva 374 staja, pari a 116,3 ettolitri, che commisurati alla superficie investita fornivano un rendimento di 9,8 ettolitri per ettaro, quantità per quel tempo non certo disprezzabile e tale da collocare Ferrara in posizioni vicine a quelle lombarde. Agli inizi del Novecento i rendimenti del frumento ferrarese, grazie ai concimi artificiali prodotti dalla chimica saliranno a primati assoluti in campo nazionale.
Quanto al prodotto netto che restava al proprietario o conduttore del fondo, occorreva detrarre i compensi previsti dagli antichi statuti di Ferrara, pari a 1/9 per i mietitori e il 5 per cento per la trebbiatura, oltre alle 53 staja per le sementi dell’anno successivo. In conclusione, il rendimento netto del frumento era di circa 262 staja (81,5 ettolitri), che al valore medio di mercato forniva 254,19 scudi romani. A questo valore dovevano essere applicate le spese colturali specifiche per il frumento pari a 21 scudi circa. Quanto alle varietà coltivate di frumento nel Ferrarese, ci ricorda intorno al 1875 un altro religioso con passioni agronomiche come don Michele Cariani che la varietà locale più usata era il frumento stiolo, accompagnato però da una seconda varietà detto romano. Presumibilmente si trattava della varietà Rieti.
Diverso il calcolo relativo al frumentone o mais. Destinando 66 staja nette di superficie a questa coltivazione e calcolando come semente necessaria 8 staja (2,5 hl) e una media produzione di 36 sementi, si avrebbero di resa 297 staja (92,3 hl). Da questo prodotto andava detratto il terzo per il boaro e la semina. Restavano di prodotto netto per il padrone 186 staja, valutabili in 120 scudi e 36 baiocchi. Ai lavoratori più poveri restava qualche sacco di frumentone e la probabilità di ammalarsi di pellagra, una grave avitaminosi indotta dall’esclusiva alimentazione a base di polenta.
Nel modello agronomico delineato da Andrea Casazza è contenuta anche una stima sul risultato che lo stesso versuro avrebbe ottenuto qualora fosse stato condotto a mezzadria. Sorprendentemente, il sistema di conduzione a mezzadria avrebbe offerto una rendita di 291,7 scudi contro i 237,2 della conduzione a boaria, la più largamente diffusa nel Ferrarese centrale. Eppure i ferraresi restarono a lungo legati a questo patto colonico che si era diffuso dalla fine del Cinquecento in avanti.
FC, 2011
Bibliografia
Andrea Casazza, Stato agrario economico del Ferrarese, Ferrara, dai Tipi di Domenico Taddei 1845; [Michele Cariani] L'agricoltura ferrarese in pratica, ovvero Guida per dirigere ed eseguire i lavori campestri secondo le più accurate osservazioni ed esperienze...: opera di un vecchio agricoltore ferrarese, Ferrara, Taddei e figli, [1875?]; Mario Zucchini, Storia del versuro ferrarese, in Georgici ferraresi del passato, a cura dell’Associazione laureati in scienze agrarie di Ferrara, Bologna, Tamari, 1968, pp. 15-31; Giorgio Porisini, Agricoltura, alimentazione e condizioni sanitarie. Prime ricerche sulla pellagra in Italia dal 1880 al 1940, Appendice statistica, Bologna, CLUEB, 1975; Id., Risultati di una ricerca sulle rese del frumento in Italia dal 1815 al 1922, Bologna, Istituto di storia economica e sociale, 1978.
Negli ultimi anni del secolo XIX, dopo un venticinquennio di crisi agraria, segnata dal crollo dei prezzi dei cereali e dalla depressione che aveva a lungo falcidiato occupazione, salari e redditi in agricoltura, i segni di un mutamento positivo della congiuntura stimolarono nuovi investimenti nel settore agricolo italiano. La Legge Baccarini (1882) aveva cercato di venire in soccorso delle grandi società di bonifica e ai consorzi ferraresi che avevano eseguito gli estesi prosciugamenti degli anni ’70 e che la crisi agraria aveva messo in gravi difficoltà, accollando allo Stato, alle Province e ai Comuni gran parte degli oneri di esecuzione e perfezionamento delle opere di bonifica classificate di I categoria. Cinque anni più tardi, insieme col dazio di 5 lire al quintale applicato all’importazione di grano straniero, il Parlamento italiano aveva varato una decisa svolta protezionistica in campo industriale. La tariffa doganale approvata nel 1887 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1888 aveva incluso tra le produzioni industriali da proteggere, oltre ai tessili e ai prodotti siderurgici, anche lo zucchero da barbabietola. Una successiva legge del 10 dicembre 1894 innalzava la tassa di importazione dello zucchero grezzo fino a lire 88 per quintale e di quello raffinato a lire 99 per quintale. Dato che la tassa statale di fabbricazione sullo zucchero era in Italia rispettivamente di 67 e 70 lire al quintale, la produzione dello zucchero di barbabietola poteva così godere di una protezione pari ad almeno 20-27 lire circa, tenuto conto anche di un aggio dell’oro sulla lira cartacea di almeno 8 lire. Si erano con ciò create le condizioni esterne favorevoli per la nascita di imprese zuccheriere in regime protetto. Nell’arco di pochi anni gli stabilimenti italiani per la lavorazione della bietola passarono infatti da 2 a ben 33. Anche la superficie investita a questa coltura era cresciuta di pari passo: tra il 1902 e il 1908 gli ettari coltivati a barbabietola in Italia erano aumentati da 25.000 a oltre 50.000.
La prospettiva di introdurre una sarchiata primaverile nella rotazione agraria, e specialmente nelle terre nuove create con la bonifica, non ancora idonee alla coltura della canapa, fu accolta con favore dagli agricoltori ferraresi. Si pensava che la radice zuccherina, lavorata con la zappa, rincalzata ed estirpata una volta raggiunta la maturazione, contribuisse al miglioramento fisico dei suoli nuovi argillosi e torbosi e li liberasse più rapidamente dalle erbe infestanti. In realtà il vantaggio maggiore che coglievano i coltivatori era soprattutto quello di poter nutrire gli animali da lavoro con le foglie e i colletti dopo l’estirpazione della radice e di utilizzare a questo scopo anche le polpe esauste rilasciate dalle fabbriche dopo il processo di estrazione del succo zuccherino. Dei vantaggi agronomici si era fatto attivo sostenitore e propagandista soprattutto il direttore della locale cattedra ambulante di agricoltura, il prof. Adriano Aducco.
L’introduzione di una nuova coltivazione ad esclusiva utilizzazione industriale, presupponeva però uno stretto legame tra coltivatori e industriali saccariferi. L’impianto di una fabbrica di zucchero richiedeva infatti, necessariamente, un previo accordo con molti agricoltori per ottenere il conferimento agli stabilimenti, nel corso di più annate agrarie, delle radici zuccherine nella quantità necessaria alla capacità produttiva delle fabbriche ed anche secondo tempi di semina e consegna programmati, data la facile deperibilità del prodotto una volta estratto dal suolo.
La presenza di grandi proprietà capitalistiche nelle campagne del basso Ferrarese poteva consentire il rapido superamento delle obiezioni e delle paure che insorgevano tra i coltivatori piccoli e medi davanti all’ingresso di una coltura dall’ancora incerto rendimento nel ciclo agrario della loro azienda. La tenace azione di propaganda e di sperimentazione svolta dalla cattedra ambulante fu presto sorretta non solo da un gruppo di grandi aziende agrarie del Ferrarese, ma anche da un vivo interesse mostrato dal capitale industriale genovese. Quest’ultimo, che già svolgeva attività di raffinazione dello zucchero grezzo di canna proveniente da oltre oceano, vedeva ora il prodotto straniero gravato da un alto dazio e cominciò a puntare sulla possibilità della produzione interna. Su questo intreccio di interessi agricolo-industriali si sarebbe fondato il rapido e travolgente successo della coltivazione della barbabietola da zucchero nel Ferrarese e nelle vicine province della valle padana orientale. Anche se la produttività delle coltivazioni ferraresi restava bassa, pari alla metà di quella francese, e se il costo di produzione dello zucchero italiano restava sempre superiore al prezzo di quello importato, l’industria saccarifera ferrarese poté comunque contare in pochi anni su almeno 5 stabilimenti. Era la prima vera industrializzazione della provincia, per quanto a carattere fortemente stagionale.
Gli agricoltori ferraresi furono così convinti ad adottare la nuova coltura dopo un’intensa campagna a favore dell’introduzione della barbabietola che fu lanciata su giornali e periodici locali. Fin dal 1896 Adriano Aducco aveva impiantato presso diversi proprietari terrieri ben 16 campi sperimentali di coltivazione della radice. Nonostante i primi modesti risultati l’anno seguente i campi sperimentali erano passati a 30, anche su pressione della società Lombarda-Ligure di Sampierdarena che raffinava zuccheri di canna e che aveva interesse a creare uno stabilimento nel Ferrarese. Nel 1898 i campi sperimentali diretti dalla cattedra ambulante di Aducco erano ormai 43 e la campagna promozionale cominciò a dare i suoi frutti. Nel 1899 la società Cirio aveva svolto esperimenti di coltivazione a Codigoro, utilizzando 100 ettari, compresi terreni torbosi, mentre l’anno precedente era iniziata la costruzione del primo zuccherificio («La Codigoro»), presto associato alla società genovese Eridania, mentre la Cirio si obbligava a coltivare almeno 500 ettari a barbabietola.
Nel 1899 era la volta di Ferrara, con due stabilimenti a Pontelagoscuro, serviti dal trasporto fluviale e ferroviario. Il 27 agosto di quell’anno iniziava la produzione la fabbrica della Società Nazionale per l’Industria degli Zuccheri Schiaffino e Roncallo, con 200 operai divisi in due turni e diretti da tecnici tedeschi. Sempre sul fiume Po iniziava la produzione anche lo zuccherificio Gulinelli, che lavorava in buona quantità barbabietole prodotte dallo stesso Gulinelli nei suoi possedimenti. La dislocazione degli stabilimenti sul Po era importante per il rapido afflusso di migliaia di quintali di barbabietole agli stabilimenti. Lo stesso avevano fatto altre province che si affacciavano al grande fiume. Nel 1902 nascevano zuccherifici a Ficarolo e Ostiglia, nel 1910 a Piacenza, nel 1911 a Casalmaggiore (Cremona), nel 1914 a Bottrighe e nel primo dopoguerra a Sermide e Polesella. Si ricordi poi che gli zuccherifici esigevano grandi quantità di carbone per la concentrazione del sugo e per i forni a calce. L’industria italiana dello zucchero consumava ogni anno tra il 1906 e il 1910 almeno 700-900 mila quintali di carbone e un milione di quintali di calce. La vicinanza al fiume Po e alla rete ferroviaria era dunque vitale per la localizzazione di questa industria.
Visto il clima ormai favorevole alla diffusione della coltura bieticola, anche Adriano Aducco si fece promotore dell’impianto di uno zuccherificio poco distante dalle mura di Ferrara e dalla stazione ferroviaria: lo Zuccherificio Agricolo Ferrarese, a forma di cooperativa tra agricoltori, di cui assunse la direzione con la sua entrata in funzione nell’agosto 1900, mentre lasciava la cattedra ambulante di agricoltura. Nel manifesto del comitato promotore della società cooperativa, apparso sulla «Gazzetta Ferrarese» il 25 luglio 1899, oltre ad Adriano Aducco, vi erano nomi importanti del mondo agrario ferrarese: tra questi il conte Alessandro Avogli-Trotti, l’ing. Riccardo Cavalieri, il cav. Pio Finzi, Settimo Minerbi, il cav. Carlo Pavanelli, il cav. Cesare Pirani, Arrigo e Guelfo Sani, Arturo Spisani, Enrico Tumiati, l’ing. Carlo Turchi. Tra i soci della società anonima apparvero anche, nell’atto costitutivo del dicembre 1899, tra i maggiori azionisti, Eliseo e Guglielmo Zamorani, la Società Bonifiche Terreni Ferraresi, il conte Giovanni Revedin, i signori Masieri, Pareschi e Bernaroli. Nel 1906 anche questa società finì tuttavia sotto il controllo dell’Eridania. Il capitale ligure manteneva l’egemonia sull’industria saccarifera ferrarese.
Dato che i primi stabilimenti sorti nella provincia producevano solo zucchero grezzo, occorreva affiancare ad essi una fabbrica di raffinazione. Quest’ultima sorse infatti dopo che nel marzo 1900 si era costituita a Genova la Società Anonima Raffineria Ferrarese Ligure il cui capitale di 1.200.000 lire era diviso fra Società Eridania, Zuccherificio Agricolo Ferrarese, Giovan Battista Fregari, Fabbrica ferrarese Conte Gulinelli e avv. L. Quartara. Un’altra raffineria sorse poco più tardi a Pontelagoscuro annessa all’impianto della Società Romana per la Fabbricazione dello Zucchero, che era subentrata alla Società Schiaffino-Roncallo. Nel 1902 sorgeva a Ferrara un altro impianto, lo zuccherificio della Società in accomandita semplice Bonora & C., promossa da tre grandi proprietari locali (Bonora, Massari, Zanardi) e in seguito munita di raffineria. Prima del conflitto mondiale un altro stabilimento della Società Saccarifera Lombarda era infine sorto a Bondeno nel 1912.
Nella pianura ferrarese la coltivazione della barbabietola e la sua manipolazione per l’industria erano diventati in breve tempo prerogativa di una classe di lavoratori agricoli senza terra: i braccianti. L’addensamento di questa classe sociale in tutta la bassa pianura padana favoriva sia i coltivatori, sia la stessa industria. Per i braccianti l’ingresso della barbabietola nelle terre di bonifica significava maggiore occupazione, sia maschile che femminile. Le semine e i lavori preparatori, diradamenti e sarchiature davano lavoro nei mesi primaverili, mentre gli stabilimenti reclutavano mano d’opera stagionale da agosto a ottobre, quando i raccolti di frumento e mais erano in gran parte compiuti e le giornate di lavoro avventizio si riducevano. La grande quantità di lavoro umano allora richiesta dalla barbabietola vide, non a caso, questa coltura favorita dalle stesse cooperative agricole di braccianti che ad essa destinavano almeno un terzo delle superfici da esse ottenute in coltivazione.
Per tutto il secolo XX la barbabietola e lo zucchero avrebbero così fatto parte del paesaggio agrario e sociale della provincia. Non è lontano il ricordo di quando la città di Ferrara nella tarda estate si riempiva dell’inconfondibile odore dolciastro delle barbabietole diffuso dai vapori degli zuccherifici e dalle polpe umide che gli agricoltori ritiravano dagli stabilimenti.
FC, 2011
Bibliografia
Camillo Borgnino, Cenni storico-critici sulle origini dell’industria dello zucchero in Italia, Bologna, Zanichelli, 1910; Eridania Zuccherifici Nazionali, Storia di cinquant’anni (1899-1949), Genova, Saiga, 1949; Lucio Gambi, Geografia delle piante da zucchero in Italia, in «Memorie di geografia economica», VII, XII, gennaio-giugno 1955, Napoli, CNR; Teresa Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi (1872-1901), Firenze, La Nuova Italia, 1971, appendice II.
Il processo di industrializzazione del Ferrarese si realizzò in ritardo rispetto ad altre zone dell’Italia settentrionale. In un contesto economico eminentemente basato sull’agricoltura, lo sviluppo del settore era ostacolato dalla assenza di qualificate classi mercantili e imprenditoriali, dalla quasi assoluta mancanza di fonti energetiche e di strutture idonee al trasporto delle materie prime e dei prodotti lavorati, dalla scarsità di scuole professionali per un’adeguata formazione tecnica e industriale.
Le statistiche napoleoniche testimoniavano una modesta presenza di attività manifatturiere nel capoluogo, esclusivamente rivolte a soddisfare il fabbisogno del piccolo mercato urbano e di pochi centri limitrofi; grave ostacolo all’espansione commerciale era poi il pessimo stato in cui versavano le vie di comunicazione. I laboratori artigianali si limitavano a una conceria di pelli, una fabbrica di rosolio, una saponeria, una bottega di cappelli e qualche pastificio. Era poi segnalata, non senza un certo disappunto, l’assenza di stabilimenti per la lavorazione della canapa, prodotta in grandi quantità e con ottimi risultati qualitativi nel Ferrarese e soprattutto nel Centese. La più importante realtà manifatturiera si trovava a Comacchio, dove circa trecento persone erano impegnate, almeno quattro mesi l’anno, nelle attività di cottura e marinatura delle anguille che, insieme all’estrazione del sale marino, avrebbero caratterizzato per tutto il XIX secolo l’economia della cittadina lagunare, evolvendosi progressivamente dalla dimensione artigianale ad un più maturo statuto industriale.
Agli inizi dell’Ottocento comparvero i primi sporadici opifici a ridosso del Po e del Volano, principali vie fluviali che garantivano l’approvvigionamento idrico e la facilità di trasporto delle merci. L’esperienza più significativa di questa fase fu quella del saponificio sorto a Pontelagoscuro nel 1812 per iniziativa del triestino Carlo Luigi Chiozza. Il cavaliere Luigi Turchi, entrato come dipendente, diventò ben presto comproprietario dello stabilimento e ne fu direttore per circa quarant’anni, durante i quali la ditta raggiunse i più maturi risultati. L’attività proseguì fino agli anni Venti del Novecento con un grande successo coronato dalle esposizioni internazionali e da un raggio di esportazioni in tutti i continenti, senza che venisse mai meno la natura familiare dell’azienda, pur intessuta di elementi capitalistici che le garantirono sempre alti livelli di competitività sul mercato.
Fino agli anni Quaranta il quadro economico ferrarese rimaneva pressoché costante, con modeste attività manifatturiere e qualche novità: una fabbrica di vetri e cristalli del piemontese Giovanni Battista Brondi e una di cremor tartaro (un agente lievitante) fondata nel 1829 da Costantino Bottoni. Realtà industriali più significative sorsero a partire dalla metà del secolo, articolandosi principalmente nella meccanizzazione di attività artigianali legate all’agricoltura e nello sviluppo manifatturiero dell’industria di trasformazione delle produzioni primarie, spesso ancora legata ad una dimensione artigianale. Nel 1847 sorse un mulino a vapore per la macinazione dei cereali nel borgo di San Luca, a circa un chilometro dalla porta Reno; frutto di una società cui aderivano Giuseppe Devoto e Giovan Battista Borromei, esso divenne operativo nel 1856 e presto la responsabilità della dirigenza fu lasciata a Pietro Bergami che arricchì lo stabilimento con macchinari della ditta Schlegel, officine e un panificio. Nonostante l’efficienza e la buona organizzazione garantite dagli eredi, l’attività molitoria dell’edificio si estinse alla fine dell’Ottocento. Nel 1857 fu inaugurato, in località Quacchio, il canapificio della società in accomandita Agricolo-Industriale fondata dal conte Achille Magnoni e dal professor Massimiliano Martinelli; dotato di macchine provenienti dalle officine Schlegel di Milano e dalla ditta Roberts-Mc Adam di Belfast, ebbe buoni ma effimeri risultati che provocarono il rapido fallimento dell’impresa.
Mentre si manifestavano questi primi tentativi di insediamento industriale di piccola dimensione, il territorio ferrarese entrava nell’epoca delle travolgenti trasformazioni fondiarie e produttive indotte dalla grande bonifica meccanica che, con l’applicazione su larga scala delle macchine a vapore, strappò al dominio delle acque vastissime aree. I nuovi latifondi disponibili a basso costo attirarono velocemente gli interessi delle grandi società capitalistiche che ne intuirono le possibilità di investimento e di sfruttamento industriale connesso alla trasformazione in loco dei principali prodotti agricoli. Per tutta la seconda metà dell’Ottocento gli interessi imprenditoriali si spostarono nei terreni liberi ad ovest della città, “fuori la Porta Po”, dove notevoli erano i vantaggi offerti agli opifici dalla presenza dello scalo ferroviario. Trovarono qui insediamento, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, le fornaci Hoffman dei fratelli Zamorani, alle quali nel 1900 si affiancò uno stabilimento ceramico con notevoli macchinari, la cui laboriosa ed efficiente attività proseguì, tra fasi alterne, sino alla fine degli anni Venti del secolo successivo. Il settore dei laterizi era d’altronde piuttosto rilevante se, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, si registrava la presenza di fornaci anche a Copparo, Migliarino, Argenta, Cento, Sant’Agostino, Codigoro, Lagosanto e Portomaggiore.
Nel contesto economico ferrarese tardo ottocentesco fu importante il ruolo dell’industria tessile. Due erano gli opifici cittadini che, dagli anni Settanta, con una manodopera quasi esclusivamente femminile, raggiunsero notevoli risultati: la laneria e setificio Reggio e il maglificio Hirsch. Entrambi producevano articoli di qualità destinati alla vendita su tutto il territorio nazionale e all’estero. Il successo più lusinghiero nel settore spettava tuttavia alla canapa, il cui mercato interno ed internazionale in espansione fu la vera novità dell’economia ferrarese. Nella seconda metà dell’Ottocento si affermò, accanto alle tradizionali attività di filatura e tessitura della fibra, la fabbricazione di spaghi e cordami per la marineria, l’agricoltura, gli imballaggi, i materassi, le sellerie e i calzaturifici. Grande importanza ebbe sicuramente il canapificio Sinz che, aperto nel 1873 nell’attuale via San Giacomo di fronte alla stazione ferroviaria, fu per oltre cinquant’anni la più importante fabbrica di manifattura canapicola della città. Dopo una grave crisi negli anni 1911-13, l’attività si trascinò verso un periodo molto difficile, coerentemente con la fase di recessione del mercato nazionale della canapa negli anni Venti e Trenta per l’arrivo di fibre più concorrenziali. Lo sviluppo dell’industria canapicola avvenne in misura più intensa nel Centese, dove decisiva fu l’attività del Linificio Canapificio Nazionale detto “Al Fabricon”, sorto nei primi anni del Novecento, per iniziativa del cavaliere Callisto Govoni, un pioniere nel settore. La canapa trovò qui il suo habitat ideale e, per l’ottima resistenza e morbidezza, fu coinvolta in un grande flusso di esportazioni che, giungendo grazie al “canalino” sino al porto di Venezia, si irradiava verso Germania, Inghilterra e Impero asburgico.
Alla fine dell’Ottocento, accanto al settore tessile, quello saccarifero fu per il Ferrarese il secondo principale ambito di sviluppo industriale. L’introduzione della barbabietola da zucchero nelle campagne modificò sensibilmente l’assetto economico locale e incise profondamente sul rapporto tra la conformazione del territorio e gli insediamenti industriali che si disseminarono in quasi tutta la provincia. Il primo opificio sorse per volontà del piemontese Francesco Cirio a Codigoro nel 1898; seguì, nel settembre 1900, lo Zuccherificio Agricolo Ferrarese, grazie alla laboriosa attività del professor Adriano Aducco che, per superare gli aperti contrasti fra industriali e proprietari terrieri, aveva fondato una cooperativa di agricoltori che lavoravano direttamente il prodotto delle proprie terre. Per iniziativa dei signori Bonora, Massari e Zanardi venne poi eretto, nei pressi della stazione ferroviaria, lo zuccherificio e raffineria Bonora, operativo dal 1901. In pochi anni sorsero gli stabilimenti Schiaffino-Roncallo (1899), la raffineria Ferrarese-Ligure (1901) e lo zuccherificio Gulinelli con le annesse distillerie; ad eccezione di quest’ultimo, tutti gli altri vennero assorbiti nel giro di pochi anni dall’Eridania, confermando la pluriennale saldatura fra il capitale saccarifero genovese e quello agricolo locale.
L’attività saccarifera si intensificò maggiormente a Pontelagoscuro, a ridosso della linea ferroviaria Ferrara-Padova, dove erano garantiti trasporti facili e rapidi, l’ausilio di quelli fluviali e l’approvvigionamento idrico necessario alla lavorazione delle barbabietole. L’ottimale condizione di scalo ferroviario e navale interno consentiva al piccolo paese di svolgere una funzione di interscambio commerciale di primaria importanza per l’economia agraria ferrarese. Investimenti esogeni di ingenti capitali trasformarono rapidamente il villaggio in un polo industriale di livello europeo. Le speranze alimentate dall’industria saccarifera in una prospettiva di miglioramento economico ed occupazionale vennero presto deluse: nel primo decennio del Novecento, il decollo industriale del Ferrarese, limitato al settore saccarifero, era ancora assai lento. L’incapacità di iniziativa economica locale, la mancanza di una solida tradizione industriale e di esperienza tecnico-organizzativa del ceto imprenditoriale, unitamente alla povertà di infrastrutture e alla fuga dei capitali all’esterno della provincia, impedirono al Ferrarese di partecipare al grande progresso che, in età giolittiana, avrebbe interessato l’industria tessile, chimica e meccanica nell’Italia settentrionale.
RF, 2011
Bibliografia
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La fine del dominio pontificio sulla provincia ferrarese ad opera delle truppe francesi portò con sé profondi sconvolgimenti negli assetti fondiari e proprietari. I vasti possedimenti terrieri ed edilizi di monasteri, confraternite, opere pie furono espropriati come “beni nazionali” e messi all’asta per far fronte al mantenimento delle armate napoleoniche. Insieme ad altri beni, finirono espropriati anche decine di migliaia di ettari delle lagune comacchiesi amministrate dalla Reverenda Camera Apostolica. I mutamenti giuridici ed istituzionali introdotti con il codice civile napoleonico (1804) sancivano inoltre il trionfo della proprietà piena e assoluta, liberandola da molti gravami (usi, livelli, enfiteusi, fedecommessi, ecc.) che fino a quel momento rendevano asfittico e immobile il mercato della terra e dei beni immobili. Davanti a queste novità le forze speculative non si lasciarono sfuggire l’occasione. Tra queste vi erano i membri della allora popolosa comunità ebraica ferrarese, che tradizionalmente detenevano molte leve commerciali e finanziarie della città e di altri centri della ex Legazione pontificia (Cento, Lugo e altrove). Significativo il fatto che alla carica di presidente della Municipalità di Ferrara durante la Repubblica Cisalpina fosse chiamato l’ebreo Pesaro, come a sottolineare l’emergere di un nuovo ceto dirigente economico prima escluso dalle cariche cittadine.
Erano stati rimossi, sia pure per pochi anni, molti ostacoli alle attività in campo agricolo di appartenenti alla comunità ebraica e la loro buona disponibilità di capitali liquidi poté permettere loro di investire nella terra, sia direttamente, sia come intermediari e prestatori per conto di acquirenti dei beni nazionali. Tra i nomi israeliti che comparvero nei più rilevanti acquisti all’asta di beni nazionali messi in vendita nel solo comprensorio del Consorzio di bonifica del Polesine di San Giorgio incontriamo Angelo Pace Pesaro (315 ha), la ditta Fratelli Isacchi (194 ha), i fratelli Dalla Vida (184 ha), Felice Coen (76 ha), Davide Hanau (52 ha) per un totale di circa 628 ettari su 4.362 ettari di beni venduti all’asta. Entro il 1828 questi acquirenti si erano ormai liberati delle proprietà terriere acquisite all’asta rivendendole a borghesi, forse nell’incertezza provocata dalla restaurazione del vecchio governo ecclesiastico.
Un quadro preciso della distribuzione della proprietà terriera nel momento della soppressione degli Ordini religiosi da parte dei francesi non esiste. La compilazione di un catasto generale delle province dello Stato pontificio era stata ordinata da Pio VI con editto del 15 dicembre 1777 ma restavano escluse dal provvedimento Bologna, Ferrara e l’Agro Romano. Nelle due città emiliane furono inviati con l’intento di riordinare il sistema fiscale due legati pontifici riformatori: a Bologna Ignazio Boncompagni e a Ferrara Francesco Carafa. Secondo le norme di Pio VI i proprietari dei terreni dovevano fornire alle Comunità dichiarazioni di «assegne» giurate sui loro beni in base a precedenti atti catastali o contrattuali. Le Comunità, a loro volta, dovevano provvedere a valutare i terreni stessi affidandosi a periti agrimensori. L’applicazione di tali disposizioni incontrò naturalmente infinite resistenze ed opposizioni. La Legazione di Ferrara, guidata dal cardinale Francesco Carafa, decise di utilizzare documenti di tipo catastale esistenti, ossia il Campione dei terreni che serviva per la riscossione dell’unica vera e più importante imposta diretta che gravava sui proprietari terrieri ferraresi, ossia la tassa scoli. Questa era applicata sia dalla Cassa dei Lavorieri del Po, sulla base delle grandi circoscrizioni idrauliche del territorio comunale di Ferrara, sia dalle altre autonome amministrazioni idrauliche o consorzi di bonifica (Grande Bonificazione Ferrarese, Serragli di Bondeno, ecc.).
Bisognò attendere l’attivazione nel 1835 del Catasto Gregoriano (oggi Vecchio Catasto Terreni) per avere finalmente una esatta misurazione e stima dei terreni ferraresi. Il catasto, entrato in vigore durante il pontificato di Gregorio XVI, era stato ordinato da Pio VII poco dopo la restaurazione del potere pontificio con motu proprio nel 1816 ed attuato con numerosi provvedimenti successivi che si muovevano però sulle tracce fissate dal decreto di Napoleone del 1807 col quale si organizzavano le finanze del Regno d’Italia. Era un censimento di terreni e possessori di tipo geometrico-particellare, a stima indiretta. Per la misurazione delle superfici fu adottato il sistema metrico, scegliendo come unità la «tavola» di mille metri quadrati; in modo che dieci «tavole» formassero il «quadrato», ossia l’ettaro.
Nei lunghi anni che trascorsero prima dell’attivazione del Catasto Gregoriano, a fini fiscali l’unico documento utilizzabile rimase perciò il cosiddetto Catasto Carafa, sui cui registri venivano registrate anche le volture. Il limite più evidente di questo strumento era la stima dei terreni circoscritta a poche generiche categorie fiscali, sulla base dell’utilità conseguibile con le opere di bonifica e scolo. I terreni erano infatti classificati in arativi abbragliati (cioè arborati e vitati), campagnoli (arativi nudi), prativi, pascolivi e sabbionivi. Il secondo grave limite del documento fiscale è che escludeva dalla registrazione vasti possedimenti degli esenti o privilegiati. Per citare un esempio, dall’elenco dei possessori contribuenti nei villaggi del Polesine di Casaglia mancava proprio la villa di Casaglia, situata al centro di una grande tenuta di oltre 1.000 ettari esentata dalla tassa sui lavorieri in quanto appartenente alla grande famiglia dei Pio di Savoia.
Lo studio di questi documenti catastali compiuto da Mario Zucchini, pur con i limiti segnalati e con l’elaborazione dei dati finora circoscritta ad una parte del territorio ferrarese, mostrava alcuni dati interessanti sull’evoluzione dei rapporti di proprietà alle soglie del XIX secolo. Sempre con riguardo al solo Polesine di San Giorgio, dove si concentravano i terreni migliori, l’elaborazione dei dati mise in evidenza che su un complesso di beni allibrati di 38.887 ettari, ben 10.524 erano nelle mani di clero ed ordini ecclesiastici; 7.400 ettari appartenevano alla nobiltà e ben 20.532 alla borghesia rurale ed urbana. I mutamenti degli anni francesi consegnarono nelle mani borghesi, tramite acquisti all’asta dei beni nazionali, sempre nello stesso territorio, altri 4.362 ettari di terra. Troveremo fra gli acquirenti appartenenti alla vecchia nobiltà ferrarese solo pochissimi nomi: Giovanni Battista Costabili Containi, i marchesi Bevilacqua e membri della famiglia Bonacossi. Oltre agli ebrei, le presenze più significative erano di personaggi che ebbero un ruolo importante nei decenni successivi e che finirono nei ranghi della nuova nobiltà napoleonica o pontificia: Luigi Massari, banchiere e appaltatore delle Valli di Comacchio creato conte nel 1810; Luigi Gulinelli, creato conte da Gregorio XVI; Giovanni Costabili Containi, creato conte da Napoleone e poi marchese nel 1841 sempre dal papa; Luigi Recchi, che ebbe il titolo di conte da Pio IX.
Saranno i discendenti di questa nuova nobiltà tra i protagonisti dello sviluppo dell’agricoltura ferrarese nel secolo XIX, mentre grandi proprietari appartenenti alla nobiltà cederanno invece una grande massa di beni fondiari alle società che intrapresero la bonifica e i colossali prosciugamenti iniziati dopo il 1870 nelle paludi dell’oriente ferrarese. La sola Ferrarese Land Reclamation Company (poi SBTF) dalla sua costituzione il 20 luglio 1871 al 1877, anno in cui il Consorzio di bonifica del I Circondario Polesine di San Giovanni redasse un proprio catasto consorziale, acquistò dai vecchi proprietari ben 15.182 ettari. Vendettero 127 ettari il conte Luigi Saracco; 507 gli ebrei Parenzo e Levi; 715 il marchese Cesare Bevilacqua; 493 Giuseppe Pavanelli; 428 Alessandro Navarra; 880 il conte Giacomo Gulinelli; 222 il conte Stefano Graziadei, e via proseguendo cedettero le loro terre i casati nobili Varano, Golfarelli-Trotti e altri. Alienarono alla SBTF vasti beni la comunità di Mezzogoro (842 ha) e Codigoro (99 ha). Nel Polesine di San Giorgio vendettero propri beni di uso comunitario all’ingegnere milanese bonificatore Girolamo Chizzolini e al figlio Luigi le comunità di Comacchio (Valle Gallare, 3.586 ha) e quella di Massafiscaglia (Valle Volta, 3.518 ha).
In definitiva, dopo i sommovimenti dell’età napoleonica, la provincia di Ferrara conobbe un secondo terremoto negli assetti fondiari. Faceva il suo ingresso nell’attività agricola sulle terre di bonifica un nuovo gruppo di proprietari, ormai costituito da società anonime (Società Cirio, Società Agricola Immobiliare Veneta, Società Anonima Immobiliare Lodigiana, la Société Vaudoise d’Exploitations Agricoles di Losanna, ecc.). Dietro un mercato fondiario sempre più allargato oltre i confini provinciali lavorava il capitale bancario, sia italiano (Banca di Torino) sia straniero, per buona parte a componente ebraica (Banca Ulrico Geisser, Banca Klein di Vienna).
Agli inizi del XX secolo la provincia di Ferrara mostrava orgogliosa in un congresso internazionale sulle bonifiche le colossali trasformazioni intervenute nella parte orientale del suo territorio, vantandosi di poter essere da allora chiamata «l’Olanda d’Italia».
FC, 2012
Bibliografia
Mario Zucchini, Il Catasto Carafa del secolo XVIII nel ferrarese, «Rivista di storia dell’agricoltura», a. VI, 3, settembre 1966, pp. 219- 232; Teresa Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi, Firenze, La Nuova Italia, 1971; Giorgio Porisini, Bonifiche e agricoltura nella bassa Valle padana (1860-1915), Milano, Banca Commerciale Italiana, 1978; Franco Cazzola, Il catasto Carafa nella legazione di Ferrara, in «In primis una petia terre». La documentazione catastale nello stato pontificio, Atti del convegno di studi (Perugia, 30 settembre - 2 ottobre 1993), «Archivi per la storia» a. VIII, 1-2, gennaio-dicembre 1995, pp. 281-294.
La Camera di Commercio di Ferrara venne fondata in epoca napoleonica in conformità alle disposizioni della legge del 26 agosto 1802, con funzioni di giurisdizione commerciale. Si installò nell’ex palazzo vescovile il 26 agosto 1803, in seguito a una lettera del cittadino Ferrarini, commissario governativo presso i tribunali, incaricato di mettere in attività, per il Dipartimento del Basso Po, le due Camere di Commercio di Ferrara e Rovigo. Il Consiglio era composto da cinque membri: Antonio Massari, Angelo Pace Pesaro, Samuele Della Vida, il dottor Munari di Calto e l’avvocato Giovan Battista Fabbri. In seguito alla rinuncia al titolo di presidente da parte del Massari, la carica venne assegnata ad Antonio Bottoni e il nuovo ente fu regolarmente operativo dal 15 novembre 1803.
Avevano obbligo di iscrizione alla Camera: negozianti, cambisti, mercanti e spedizionieri residenti nel Comune o nel circondario giurisdizionale; tutti i proprietari di fabbriche e di manifatture; artigiani capi di bottega o capi mastro; padroni di barche che trasportavano e negoziavano merci lungo i canali e in mare; sensali e mezzani. Il 13 giugno 1806, con un decreto di Napoleone I, in seguito al riordinamento della giustizia civile e penale, la Camera cessò di esercitare funzioni giudiziarie, che divennero prerogativa del Tribunale Commerciale. Seppur privata del ruolo giurisdizionale, la Camera continuò a esercitare la fondamentale funzione di osservatore del contesto socio-economico ferrarese e dei fattori che ne ostacolavano lo sviluppo. Una prima preziosa fonte per conoscere la situazione della provincia in epoca napoleonica fu l’Inchiesta statistica compilata dalla Camera nel 1807. Il documento riconduceva le condizioni dell’agricoltura alla scarsità di braccia, alle decime, all’eccessivo carico tributario e al disordine idraulico. Ciononostante il settore primario rimaneva la principale fonte di ricchezza, mentre poco significativo era l’apporto dato dalle manifatture, concentrate nei due maggiori centri di Ferrara e Comacchio, circondati da una rete di modeste unità. Un dato negativo registrato con dovizia di particolari era costituito dalla precaria condizione delle strade, grave ostacolo al commercio. La Camera auspicava, dunque, una risistemazione idraulica del territorio per garantire un più sicuro controllo delle acque, incoraggiamenti agli agricoltori perché intensificassero le coltivazioni, una maggiore libertà di commercio esterno e interno, che avrebbe consentito una proficua concorrenza, un aumento della produzione e più ampi margini di guadagno. Sottolineando come la popolazione si fosse sempre adoperata per far fronte ai limiti imposti dal clima, dalle acque e dall’ubicazione della provincia, l’ente esortava l’economia locale ad ancorarsi alle certezze che potevano derivarle solo dall’agricoltura e dalle attività ad essa correlate.
Con decreto regio del 27 giugno 1811 l’istituto assunse la nuova denominazione di “Camera di Commercio, Arti e Manifatture”. Oltre alla tutela degli interessi delle categorie commerciali e industriali, si ritrovò attribuite funzioni pubbliche: la raccolta di notizie e dati sulla situazione economica; la rilevazione delle difficoltà che ostacolavano lo sviluppo del commercio e dell’industria; la facoltà di proporre premi a favore degli inventori di macchine; compiti, rinnovati, di giurisdizione commerciale. Installatosi il 29 giugno del 1812, la Camera ebbe presidente Costantino Zani e come vice Anselmo Nagliati. La sollecita attenzione con cui la Camera si impegnava a fornire al governo centrale le informazioni richieste e la scrupolosa cura nel proporre soluzioni in merito erano confermate anche nella fase finale della dominazione napoleonica, nelle relazioni inviate negli anni 1811-14 in risposta alle interrogazioni rivolte dal prefetto su richiesta di Napoleone. In esse era ribadita la natura prettamente rurale dell’economia ferrarese e venivano riportate le difficoltà del decollo di attività imprenditoriali di una certa consistenza: scarseggiavano tuttavia progetti per superare questa condizione di immobilismo. In seguito alla riforma amministrativa e giudiziaria del restaurato Stato pontificio, l’istituto camerale ferrarese venne soppresso il 24 luglio del 1815; tutte le attribuzioni di competenza giudiziario-amministrativa e l’obbligo di tenere corrispondenza con la Legazione e il governo furono trasferite al Tribunale di Commercio.
Sotto il pontificato di Gregorio XVI, con un editto del 31 gennaio 1835 del cardinale Antonio Domenico Gamberini, segretario di Stato per gli Affari Interni, l’ente risorse come “Camera Commerciale di seconda classe”. Presieduto dal legato pontificio, ebbe sede, dal 1840 al 1929, al terzo piano del palazzo comunale. Da questo momento la sua attività si fece sempre più ingente, testimoniata nelle varie relazioni dei membri camerali, che presentarono numerose proposte per il riassetto idroviario della provincia, insieme a progetti per la realizzazione di una strada ferrata che collegasse Ferrara e Pontelagoscuro a Bologna (utile anche per le relazioni commerciali con i porti di Livorno ed Ancona), per l’introduzione di una linea telegrafica in città e iniziative di impegno civile, tra cui l’istituzione di una casa di ricovero per gli “accattoni”. Per suggerire gli strumenti idonei allo sviluppo industriale, la Camera si prodigò nella raccolta di tutte le informazioni sulla produzione agricola annuale e sulle esportazioni di prodotti locali e le importazioni di beni esteri, chiedendo all’autorità governativa che imponesse ai proprietari terrieri la denuncia delle loro derrate ed esortasse gli uffici doganali a rendere conto dei quantitativi di merci importate ed esportate. Un ruolo fondamentale in seno alla Camera fu ricoperto da Filippo Maria Deliliers, segretario dal 1837 al 1850 e autore dei Cenni statistici della provincia di Ferrara, il primo quadro completo dell’economia e della società della provincia. Per tredici anni consigliere relatore comunale, fu poi membro della giunta statistica, promotore della Società Agraria ferrarese e di istituzioni assistenziali. La Camera di commercio promosse inoltre con grande impegno e determinazione la partecipazione di artigiani, piccoli imprenditori e commercianti ferraresi alle esposizioni nazionali e internazionali, già sollecitata dal Ministero del Commercio, Belle Arti, Agricoltura e Industria dello Stato pontificio e, successivamente, dal Ministero del Commercio e dei Lavori Pubblici. Essa si attivò prontamente per corrispondere al meglio alle richieste del potere centrale di Roma, coinvolgendo nell’iniziativa l’Istituto Agrario di Luigi Botter e i vari artigiani e industriali della provincia. La risposta a tale iniziativa fu al di sotto delle aspettative data la sostanziale arretratezza economica del Ferrarese, che però riuscì a non sfigurare nell’esposizione di Londra del 1855 ottenendo grande successo con i prodotti canapicoli.
Nel 1859, in seguito al riordinamento di tutte le Camere esistenti, il dittatore delle Romagne Luigi Carlo Farini istituiva a Ferrara una “Camera di Commercio di prima classe” con funzioni meramente consultive. All’indomani dell’unificazione nazionale si fece immediatamente sentire la necessità di una riorganizzazione camerale su base unitaria. Con la Legge 680 del 1862, l’ente ferrarese assunse la nuova denominazione di “Camera di Commercio e Arti”. Composta da tredici consiglieri, fu propugnatrice dei principi di libertà dei traffici e di ogni iniziativa utile al progresso industriale e commerciale della provincia, tra cui la formazione di scuole per l’istruzione tecnica e professionale. Nuovo presidente fu Francesco Tranz, trasferitosi a Pontelagoscuro nel 1818 per dirigere insieme a Carlo Luigi Chiozza il celebre saponificio. Sindaco del paese, più volte consigliere provinciale e membro del Tribunale di Commercio, rimase alla guida dell’istituto camerale fino al 1869.
Negli anni successivi, le presidenze di Pietro Modoni (1869-1882), Costantino Bottoni e Giuseppe Bresciani (1882) portarono la Camera di Commercio a consolidare la propria funzione di strumento conoscitivo per il governo centrale e di interpretazione dei bisogni della provincia. Dal 1883 al 1898 la carica presidenziale venne ricoperta da Antonio Santini. Presidente dell’arcispedale Sant’Anna, membro della Società di Mutuo Soccorso e dell’Opera Pia Bonaccioli, volse le sue attenzioni soprattutto al progetto di costruzione della darsena e ai lavori per il canale di Burana. Fondamentale, per ricostruire l’andamento generale dell’economia ferrarese di fine secolo, la sua Relazione sulla gestione camerale degli anni 1893-1894. Fonte ricchissima di informazioni sulla produzione principalmente cerealicola e canapicola delle campagne, essa registrava ancora una presenza piuttosto modesta delle attività industriali.
Nei primi anni del XX secolo continuarono gli sforzi dei membri camerali per assecondare qualsiasi iniziativa utile al commercio, mantenendo vivi i contatti con gli organi centrali, le autorità locali e soprattutto con il ceto imprenditoriale, per poter innescare processi di sviluppo nella produzione e nei traffici. Notevole fu l’impegno nei vari ambiti di politica tributaria e doganale, nei settori delle comunicazioni e dei trasporti e nell’insegnamento professionale. L’opera svolta all’interno dei propri uffici fu assidua, come attestano le carte d’archivio conservate in due fondi presso l’Archivio di Stato di Ferrara e presso l’attuale Camera di Commercio: inchieste statistiche, relazioni, verbali, atti amministrativi di varia natura, monografie sull’andamento economico della provincia, informazioni offerte agli enti pubblici e ai privati sugli andamenti e gli indirizzi dei mercati locali.
In seguito alla Legge del 20 marzo 1910, l’istituto assunse la nuova denominazione di “Camera di Commercio e Industria”, ebbe riconosciute maggiori prerogative, ma con limitata autonomia di azione. Nonostante le notevoli difficoltà incontrate nell’attuazione delle proprie proposte, essa riuscì a farsi interprete, in modo costruttivo, delle esigenze del Ferrarese, cercando di ovviare alla carenza di spirito imprenditoriale che, per tutto l’Ottocento, aveva segnato il substrato socio-economico della provincia.
RF, 2011
Bibliografia
Camera di Commercio ed Arti, Regolamento interno della Camera di Commercio ed Arti di Ferrara, Ferrara, Taddei, 1863; Antonio Santini, Relazione della Presidenza della camera di commercio ed arti di Ferrara sulla gestione camerale 1893-1894, Ferrara, Bresciani, 1895; Silvio Ravenna, Cenno storico sulla Camera di Commercio e Industria di Ferrara con notizie e dati statistici sulla particolare struttura economica della Circoscrizione. Relazione sommaria richiesta dal Ministero dell'Economia Nazionale con circolare 105 del 20 aprile 1924, Ferrara, Camera di Commercio e Industria della Provincia di Ferrara, 1924; Roberta Amoroso, La Camera di commercio di Ferrara dall’Età napoleonica all’Unificazione nazionale, tesi di laurea, Università degli studi di Bologna, Facoltà di Economia, Corso di laurea in economia e commercio, a.a. 1994-1995; Anna Maria Stagira, La camera di commercio di Ferrara, in Dizionario biografico dei presidenti delle Camere di commercio italiane (1862-1944), a cura di Giuseppe Paletta, I, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 199-207.