Fiumi

Augusto Droghetti (Ferrara 1844 – 1918), Padre Eridano; olio su cartone, cm 35 x 65 Augusto Droghetti (Ferrara 1844 – 1918), Padre Eridano; olio su cartone, cm 35 x 65 Ferrara, Museo dell’Ottocento

Nel corso del XIX secolo gli interventi di sistemazione dei fiumi e dei canali determinarono un assetto idrico che, seppure non del tutto risolutivo, era destinato a caratterizzare il territorio ferrarese fino alla contemporaneità. Molteplici furono le rotte e le alluvioni, alle quali fece fronte un costante lavoro di manutenzione e rinforzo delle opere di difesa.

Sotto l’aspetto teorico, numerosi studi – fra i quali occupano un posto di rilievo le opere di Elia Lombardini – evidenziarono un progressivo aggravarsi dei fenomeni alluvionali, in riferimento all’altezza massima delle piene rispetto al piano di campagna. Gli interventi, come suggerito dallo stesso Lombardini, interessarono soprattutto il rialzo e l’irrobustimento degli argini, sebbene sulla natura di queste opere i pareri fossero contrastanti. Altri ingegneri – ad esempio il francese Gaspard de Prony, direttore delle École de Ponts e Chaussées – sostennero che proprio nell’innalzamento degli argini era da ricercarsi il problema dell’elevazione dell’alveo che determinava una maggiore pericolosità delle piene. Secondo Lombardini, invece, il progressivo aumento del livello dei fiumi era determinato dal degrado delle pendici montuose, disboscate per far spazio alle coltivazioni, che subivano una maggior erosione con conseguente crescita nel trasporto di materiale solido. Il fenomeno interessava particolarmente il fiume Panaro: al ponte di Navicello, sulla strada di Nonantola, il livello medio di massima piena passò dai 7,90 metri del 1783 ai 10,10 del 1842. In seguito a questi rilievi furono innalzati nuovi argini dalla foce in Po fino a cinque chilometri a monte del suddetto ponte. Gli interventi determinarono così la completa canalizzazione dell’ultimo tratto del fiume.

Studi più recenti hanno stabilito, di contro all’opinione dominante nel secolo XIX, che la crescita del livello idrometrico nei fiumi della pianura padana fu legata agli interventi di bonifica per l’aumento della superficie coltivabile. Questi richiesero l’incremento delle difese longitudinali dei fiumi – gli argini – che avevano lo scopo di condurre le acque in un unico alveo, determinando così l’innalzamento del livello idrometrico all’interno dell’alveo stesso.

La prima grave alluvione del Po che colpì il territorio ferrarese ebbe luogo nel 1812. Il 15 ottobre, nei pressi della frazione di Ravalle, il grande fiume aprì una breccia nell’argine lunga 170 metri: l’acqua allagò in breve tempo i campi circostanti, distruggendo numerose abitazioni. Il giorno successivo buona parte del Polesine di Casaglia era sommerso, la strada di Pontelagoscuro era stata distrutta e l’alluvione minacciava la stessa città di Ferrara, arrivando a lambirne i sobborghi. Tuttavia la piena riuscì a defluire nel Polesine di San Giovanni e da qui al mare, scongiurando la catastrofe.

Nel 1839 il Po cominciò a crescere già dai primi di ottobre e la situazione non fece che peggiorare a causa delle piogge persistenti e del forte scirocco che manteneva alto il livello del mare. Nonostante l’enorme sforzo da parte della popolazione per scongiurare lo straripamento, nella notte del 12 novembre l’argine cedette a Bonizzo, presso Borgoforte sul Po. Nel volgere di poche ore le acque raggiunsero ed allagarono Bondeno, mentre falliva il tentativo di creare un argine provvisorio intorno al paese. Due giorni più tardi l’argine crollava anche a Castel Trivellino e l’alluvione dilagò su una superficie di 700 km quadrati, raggiungendo in alcuni punti i 9 metri di altezza. Particolarmente colpite, oltre a Bondeno, furono le frazioni di Pilastri, Stellata, Scortichino e Burana; nel solo Ferrarese oltre 7.200 persone dovettero abbandonare le loro case per cercare rifugio sulla sommità degli argini o furono tratte in salvo con le barche. Il perdurare delle avverse condizioni atmosferiche non fece decrescere l’acqua fino al 16 dicembre: nel Comune di Bondeno crollarono 578 case e 198 furono gravemente danneggiate, spingendo il governo pontificio ad accordare agli alluvionati l’esenzione delle tasse per tre anni.

Fra questo evento e la successiva e ancor più grave alluvione del 1872 ebbe luogo l’unificazione politica del paese che comportò una notevole rivoluzione nell’approccio al controllo dell’assetto idrico: alla gestione diretta da parte degli abitanti, che per secoli avevano curato le manutenzione e affrontato le emergenze – grazie ad una cultura idraulica diffusa e stratificata – si sostituirono i tecnici e i funzionari quale emanazione del nuovo potere centrale. Sollevate le popolazioni locali dall’onere della salvaguardia fluviale, la questione venne ben presto soffocata da regolamenti puntigliosi e burocratici che avrebbero comportato un peggioramento nella qualità e nella funzionalità degli interventi.

La rotta del 1872 fu, in parte, il risultato di questa nuova gestione. Fin dal 1839 si era palesato il pericolo di possibili cedimenti degli argini nel territorio fra Ro e Guarda Ferrarese. I lavori di rinforzo delle opere di difesa, approvati dal Genio Civile nel 1862, furono condotti impropriamente, senza verificare la natura dei terreni sottostanti gli argini, né sistemare i numerosi fossi di scolo. Il crollo dell’argine avvenne il 23 maggio, dopo che da oltre dieci giorni il Po aveva superato il livello di guardia: l’argine cedette in quattro punti e in pochi attimi l’abitato di Guarda fu devastato. La piena si diresse verso l’argine del canal Bianco che resistette alcuni giorni per poi cedere, innescando un effetto a catena: le acque dilagarono fino al Po di Volano che il 3 giugno finì con lo straripare anch’esso. A quel punto l’alluvione aveva coperto un’area di 70.000 ettari, grossomodo tutto il territorio della Grande Bonifica Ferrarese: verso occidente aveva raggiunto l’abitato di Boara, prossima a Ferrara; verso oriente, fino a Mesola, Goro e la Val Vaccolino. Ci vollero più di cinquanta giorni per arginare le rotte, mentre l’acqua del fiume, alimentata dallo scioglimento delle nevi, continuava a defluire per la campagna.

Le diverse indagini che seguirono non poterono stabilire alcun provvedimento poiché ai primi di ottobre il Po cominciò nuovamente a salire e il giorno 23 ruppe gli argini presso Ronchi di Revere, danneggiando soprattutto il Bondenese. La commissione parlamentare di inchiesta che seguì al disastro non fu in grado di accogliere molte delle richieste che venivano dal territorio, come la necessità di realizzare le casse di espansione (i bacini artificiali che servono ad accogliere parte della piena in modo da ridurre la portata del fiume) o l’istituzione di una scuola idraulica a Ferrara che potesse formare tecnici specializzati nello studio del regime idrico.

Dal 1795 il Reno, con la realizzazione del Cavo Benedettino fra le località di Malalbergo e Traghetto, era stato inalveato nell’antico percorso del Po di Primaro, senza che fossero tuttavia risolti i numerosi problemi, legati, soprattutto, al notevole apporto solido del fiume che determinava un progressivo innalzamento dell’alveo rispetto ai terreni circostanti.

In epoca napoleonica si riaprì il dibattito sulla conduzione del Reno nel ramo principale del Po: assieme al progetto per la botte sotto il Panaro, destinata a convogliare le acque del bacino di Burana, si prospettò la costruzione di una seconda botte, sotto l’alveo del Reno, per scaricare le acque del fiume nel Panaro e quindi nel Po. Il progetto fu però abbandonato.

Dopo la Restaurazione, così come nei primi decenni postunitari, fu proseguito un costante lavoro di sistemazione e manutenzione dell’inalveazione del Reno che non impedì, tuttavia, le molteplici rotture degli argini: particolarmente gravi furono quelle negli anni 1842, 1864 e 1896, che allagarono buona parte del terzo circondario, pur preservando il Polesine di San Giorgio e la stessa città di Ferrara. Le torbide contribuivano infatti a rialzare il fondo del nuovo alveo e a determinare alterazioni nel deflusso delle acque. Le osservazioni periodiche, tuttavia, stabilirono che, a partire circa dal 1875, il fiume acquisì finalmente una stabilità alveale.

Sotto l’aspetto della navigazione interna particolare rilievo assunse la sistemazione del Po di Volano, attraverso progressivi tagli di meandri e rettifiche dell’alveo per ridurne la lunghezza: nel 1830 venne aperto il drizzagno del Cantone, circa 6 km prima del mare, che abbreviò il percorso di 2,4 km; ben più importante fu il cosiddetto Diversivo Baccarini, 2 km a valle di Codigoro, completato nel 1877, che tagliò un meandro lungo circa 10 km. Restava da affrontare il problema degli insufficienti apporti idrici necessari ai bisogni della navigazione. La questione fu definitivamente risolta quando, completate le opere per il cosiddetto Cavo Napoleonico, le acque della Bonifica di Burana vennero scaricate nel Volano, assicurando così portate sufficienti a rendere il naviglio una delle più importanti e trafficate vie d’acqua della valle padana.

MP, 2011

Bibliografia

Elia Lombardini, Dei cangiamenti cui soggiacque l’idraulica condizione del Po nel territorio di Ferrara e della necessità di rettificare alcuni fatti annunciati da Cuvier su tale argomento, Milano, Bernardoni, 1854; Antonio Bottoni, Appunti storici sulle rotte del basso Po, Ferrara, Tipografia Sociale, 1873; Erminio Cucchini, La bonificazione di Burana e il Naviglio di Volano, Ferrara, Industrie Grafiche Italiane, 1922; Baldassarre Bacchi, Stefano Orlandini, Maurizio Pellegrini, Le alluvioni del Po nel secolo XIX: alla ricerca delle cause, in La dinamica fluviale del Po nell’Ottocento e le tavole della Commissione Brioschi, a cura di Ireneo Ferrari e Maurizio Pellegrini, Diabasis, Reggio Emilia, 2007, pp. 145-166.

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