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Pane

Pane Archivio storico comunale, Raccolta avvisi comunali

Il «pane più buono del mondo» – così definito da Riccardo Bacchelli sulle pagine del «Corriere della Sera» (1958) – e la classica forma della “coppia” diventata una delle icone di Ferrara, ha dipanato la sua lunga storia attraverso vicende legate alla città, alla sua pianura, alle sue atmosfere e alle sue leggi fin dal XIII secolo, passando indenne o quasi attraverso i cambi di governo.

In età napoleonica, come nei secoli precedenti, il governo cercava di colpire le molteplici frodi commesse particolarmente dai mugnai. Nel triennio cisalpino, infatti, la crisi generale fu accompagnata dalla carestia dei grani, dovuta anche al gelo e alla scarsità di acqua che impedivano il funzionamento dei mulini sul Po, ritardando la macinazione. Un ordine della Repubblica Cisalpina dato in Ferrara nel 1798, ammoniva che nemici dell’ordine pubblico tentavano di suscitare un allarme per la carestia del pane, facendone comperare per diverse persone: per questo motivo solo i capi di famiglia potevano acquistare personalmente il pane, dichiarando onestamente la composizione del proprio nucleo familiare per non incorrere nel processo secondo le Leggi normali di Polizia.

Con la Restaurazione, il governo pontificio iniziò la vendita dei mulini galleggianti che fin dall’età estense affollavano la riva del Po tra Francolino e Pontelagoscuro. Incombeva sempre la minaccia della carestia, tanto che si dovette ricorrere alla preparazione del “pane di mistura” confezionato con farine di cereali minori mescolate a patate lessate e del triste “pane succedaneo” preparato con farine di ghiande da quercia, rovere, cerro e simili. La rilevanza sociale della panificazione non era molto considerata in età pontificia e il commercio dei grani era regolato in modo caotico sotto la copertura di un sistema doganale controllato dagli austriaci. Proprio in un episodio di contrabbando di grani fu coinvolto il corrotto delegato pontificio conte Filippo Folicaldi, il cui emblema nel Salone degli Stemmi del Castello Estense è stato annerito per cancellarne la memoria.

Una nuova valorizzazione dell’arte dei fornai si ebbe nel 1863 con l’apertura del “Forno sociale”, nell’intento di favorire le classi meno agiate. Sei anni dopo, però, lo Stato fece applicare la “tassa affamatrice dei popoli” e i mugnai boicottarono le macine, arrivando ad aspri scontri sociali proprio per l’imposizione sul macinato (Legge n. 4490, 7 luglio 1869), abolita gradualmente solo dal 1880.

Nello stesso 1869 il nuovo Regolamento di Polizia Municipale disciplinava la materia su forni e mugnai: alcuni articoli richiamavano legislazioni precedenti, perfino norme già presenti negli statuti di Ferrara del 1287.

Nell’Ottocento non cessarono gli abusi che implicavano i fornai. Nel 1841, per esempio, il proprietario di due panifici in città pubblicizzava il pane di lusso detto “mistone”, preparato con farina di granturco, nonostante gliene fosse stata vietata la vendita. In alcune località del Ferrarese ci si lamentava per il pane poco fermentato, disgustoso e addirittura rischioso per la salute.

Col tempo decaddero, almeno formalmente, le disposizioni a tutela del consumatore; il pane era venduto non solo nei “forni”, ma anche nelle locande, dai pizzicagnoli e dai girovaghi. Nel 1873 alcuni fornai si riunirono in società: furono loro, due anni dopo, a segnalare che a Ferrara il numero dei panificatori era superiore rispetto a tutte le città italiane. Si erano però aggiunti degli abusivi che non denunciavano il peso del pane e lo consegnavano a domicilio (anche al personale degli uffici pubblici) senza controlli da parte delle autorità. Per legge, infatti, le pezzature dovevano corrispondere ai campioni depositati presso il Consolato di Annona e per chi contravveniva erano previste sanzioni pecuniarie, il carcere e l’interdizione dall’esercizio, pena che colpì la proprietaria di un forno di via della Rotta (via Garibaldi) perché vendeva pane sottopeso traendone un vantaggio economico.

Anche i fornai aderirono agli scioperi di fine secolo, cercando un riconoscimento adeguato alle esigenze di vita e di lavoro. L’8 maggio 1897 la Giunta comunicava pubblicamente che in seguito alla dichiarazione di sciopero dei lavoranti fornai la vendita del pane sarebbe stata fatta, a cura del Municipio, presso la già Chiesa di San Maurelio (Chiesa Nuova) (ora Sala Estense). Lo stesso succedeva nel 1898, quando il Comune, invitando la cittadinanza alla calma, pregandola di considerare le cause di diversa natura: gli scarsi raccolti, la guerra Ispano-Americana e l’agitazione dei grandi mercati che avevano determinato un forte rialzo nel prezzo del grano e delle farine e, per conseguenza del pane, lo mise in vendita a 40 centesimi il chilo ancora nella Chiesa Nuova, segnalando che il Municipio pagava la stessa quantità alla “Società degli Esercenti Fornai” 48 centesimi.

Secondo un avviso comunale del 1° maggio 1898 in città erano in attività 10 rivenditori di pane e 35 fornai, mentre al 1° dicembre si contavano 11 rivenditori e 34 fornai, quattro dei quali si davano il turno, mese per mese, tenendo aperto il loro negozio fino alle ore 21; il prezzo del pane per chilogramma oscillava tra i 35 e i 70 centesimi, secondo la pezzatura. Tra le pagnotte e le coppiette, in un avviso pubblico compare anche il curioso nome “svizzerone” che richiama l’idea di una “coppia” di grandi dimensioni, ma bisogna ricordare che nel 1862 un panificio situato nella piazza del Mercato (piazza Trento e Trieste) fu ceduto alla ditta “Balzar e Liesch” e fu sempre chiamato “il forno degli svizzeri”.

La Redazione, 2012

Bibliografia

Geminiano Grimelli, Metodi pratici per fare al bisogno pane e vino con ogni economia e salubrità nelle circostanze specialmente di carestia, Modena, Tip. Vincenzi, 1854; Giorgio Mantovani, Profumo di pane, «La Pianura», 3, 2000, pp. 60-65; Angela Ghinato, Andrea Samaritani, Paolo Righi, Ferrara e il pane. Un viaggio lungo 700 anni, Monteveglio (Bologna), Atlante, 2007.

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