Vite e vino

Il territorio ferrarese, costituito da una pianura che nell’Ottocento era ancora in buona parte coperta da valli e paludi e che è situato a pochi metri sopra il livello del mare, non poteva certo dirsi vocato alla viticoltura e alla produzione del vino. Eppure la vite e il vino erano presupposti importanti e necessari del sistema agrario ferrarese. Basterà ricordare che il vino, grazie alla modesta quantità di alcool in esso contenuta, rappresentava pur sempre la bevanda più igienica che gran parte della popolazione avesse a disposizione. L’acqua dei pozzi, che spesso attingevano a falde verso le quali penetravano anche scarichi di latrine con sistemi a dispersione, non era quanto di meglio si potesse portare in tavola per bere e cucinare. Nell’anno 1855 una grave epidemia di colera colpì il Ferrarese, presumibilmente assecondata dalle scarse condizioni igieniche dell’acqua. Da alcuni anni la diffusione dell’infezione crittogamica aveva fortemente ridotto la capacità produttiva delle viti e spinto all’insù i prezzi del vino. «La mancanza, o per meglio dire la straordinaria scarsezza del vino, com’io opino – notava l’agronomo don Michele Cariani – fu una delle cause messe in opera dall’Onnipotente per castigare anche gli abitanti di questa fertilissima Provincia col terribile flagello del colèra». Nella provincia si consumavano vini bianchi generalmente prodotti nella Romagnola ferrarese e nel Centese. Nel Ferrarese centrale, sempre stando a quanto affermava intorno agli anni 1870 il Cariani, «il vino è quasi tutto negro fatto coll’uva d’oro». E l’uva d’oro, si pensava anche allora comunemente col sostegno delle memorie del Frizzi, era stata introdotta dalla Borgogna dall’ultimo duca estense Alfonso II ed aveva avuto diffusione in tutto il Ferrarese, sostituendo il precedente vitigno detto Albanella. Possiamo oggi ritenere abbastanza improbabile questa versione circa l’ingresso dell’uva d’oro nel territorio ferrarese.

In realtà, ancora nella prima metà dell’Ottocento nelle campagne ferraresi si incontravano molte varietà di uva, bianche e nere, le stesse di cui parlava mezzo secolo prima l’abate Vincenzo Chendi. Quest’ultimo ci ricorda che l’uva d’oro era chiamata «uva forte» e che il miglior momento per la vendemmia era a San Michele. Ma accanto ad essa si coltivavano il nerone o melicone, la cremonese, il coccobello, il berzimino, le lambrusche.

Almeno 14 erano le varietà di uve bianche ricordate dal Cariani come esistenti ai tempi della sua fanciullezza: il moscatello bianco, la lugliatica, il trebbiano, la grila bianca, l’albanone grosso, l’albanella, la melina, la forzella, la speziala o bodelona, lo sbibbio bianco, l’uva marona, l’uva di terra promessa, la pellegrina o uva aceto, la boscareccia bianca dai piccoli chicchi. Tra le uve nere erano presenti il moscatello negro, l’uva d’oro, il berzemino, il melicone (detto anche varone o sgurbione), il meliconcello, la cremonese, lo sbibbio nero, l’ovetto (specie di berzemino o lambrusca selvatica), l’ovino nero detto lambrusca. Vi era inoltre la presenza di uve rosse, tra cui la rossiola, la grila nera, la bazzugana, la brombesta e l’uva passerina. Non sembri inutile questa lunga elencazione di vitigni presenti sul territorio ferrarese. Servirà a ricordare la grande biodiversità di cui era allora custode il mondo agricolo e che nel corso dell’Ottocento ebbe ad attenuarsi. Per le ragioni ricordate l’obiettivo era anche ottenere la maggior quantità possibile di uva e di vino, ciò che non andava certo in direzione della qualità del vino prodotto, ma non si può escludere anche un intento degli agricoltori di ottenere, grazie alla grande varietà di uve coltivate, anche una sorta di assicurazione contro eventuali calamità o contro annate scarse di qualcuna delle varietà più diffuse. Il secolo XIX portò invece alla drastica riduzione delle varietà con la adozione e il predominio dell’uva d’oro come prodotto per la vinificazione, anche se la pianta di uva d’oro esigeva cure più intense e non giungeva a superare i 40 anni di età, rendendo necessaria una continua produzione di propaggini per sostituire le piante morte. Ben più longeve erano le viti di melicone, di albanella, di forzella, di pellegrina.

Proprio l’Ottocento conobbe le infezioni crittogamiche e dopo il 1877 vide anche l’arrivo della fillossera (Philloxera vastatrix), un insetto proveniente dall’America che aveva distrutto vigneti in Spagna, Catalogna, Francia, Sardegna e aveva raggiunto anche la penisola italiana. La soluzione che dopo molto tempo fu trovata al problema della fillossera fu il reinnesto delle viti locali su piede di vite americana, la stessa che aveva importato in Europa l’insetto devastatore, restandone però immune. Il reimpianto comportò una drastica selezione delle varietà coltivate, favorita peraltro dal Comitato ampelografico nazionale italiano costituito dal 1872 presso il Ministero di agricoltura industria e commercio.

Il rincaro del vino e le massicce importazioni di vino italiano da parte della Francia privata dei suoi vigneti si tradussero in una forte espansione della viticoltura italiana. Anche a scala locale ferrarese l’obiettivo per gli agricoltori diveniva quello di ottenere la maggior quantità possibile di uva e di vino, ciò che non andava certo in direzione della qualità del vino prodotto, e che spiega anche l’adozione sistematica dell’uva d’oro. Fece anche la sua comparsa nelle campagne ferraresi di fine Ottocento l’uva americana Clinton, un ibrido ottenuto da un incrocio tra la vitis riparia e la vitis labrusca (entrambe americane) che offriva alte produzioni e buona resistenza alla fillossera, ma la cui coltivazione venne in seguito proibita, anche perché le sue uve non erano provenienti dalla vitis vinifera, limitando il suo uso solo come portainnesti. Il vino Clinton insieme all’uva d’oro divennero così le piante da vino più diffuse. Il Clinton soprattutto nel Centese e nell’Alto Ferrarese, mentre l’uva d’oro dava vita ad una viticoltura specializzata nella produzione di vino Fortana, detto comunemente vino del Bosco Eliceo, proveniente cioè da quella fascia di sabbie e dune dove fino alla metà del 1600 esisteva una grande lecceta usata dagli Estensi per la caccia e in seguito estirpata per dare ai comacchiesi un poco di terra da coltivare a grano.

L’altro aspetto importante nella storia della viticoltura ferrarese riguarda i sistemi di allevamento della pianta. Erano certamente presenti forme tradizionali di vigneto specializzato relegate in piccoli appezzamenti prossimi alle abitazioni coloniche o nei pressi delle gronde fluviali, oppure nei broli (frutteti) annessi alle case padronali. Si trattava di forme di allevamento della pianta non molto dissimili da quella che possiamo ammirare nel riquadro del mese di marzo nel salone dei mesi di palazzo Schifanoia: viti a pergolato oppure viti maritate a qualche albero nei pressi di un villaggio. Molti vigneti erano collocati nell’immediata periferia urbana ed anche in piccoli e grandi orti dentro le mura cittadine, specialmente nella parte di città ancora vuota della addizione erculea e negli spazi verdi annessi ai grandi monasteri per il consumo dei religiosi.

La parte di gran lunga preponderante della produzione vinicola ferrarese proveniva tuttavia dalle aperte campagne col sistema della piantata di viti maritate a filari di sostegni vivi, in genere olmi, aceri campestri (oppi) o pioppi. Questo sistema, che si generalizza a partire dalla fine del Medioevo in tutta la pianura padano-veneta, consentiva alla vite di arrampicarsi sugli alberi e di allontanare così i suoi frutti dagli umidi suoli della valle padana. Al contempo, la fitta dotazione arborea dei campi offriva copioso fogliame utile per nutrire il bestiame da lavoro, la legna necessaria per il riscaldamento nei mesi invernali, pali, travi e correnti per costruire, oltre a svariati frutti come noci, ciliegie, prugne ecc.

Le campagne dove era presente l’arborato-vitato, ossia la coltivazione promiscua di cereali, legumi, canapa e uva da vino maritata agli alberi in filare erano dette nel Ferrarese terre abbragliate. Queste avevano un maggiore valore d’estimo rispetto alle terre campagnole, ossia agli arativi nudi. Nelle terre abbragliate una serie di appezzamenti (pezze) affiancati dava origine al morello detto anche traverso. Pezze affiancate per il lungo erano dette invece filari. Più morelli o più filari che scolavano insieme in una affossatura consorziale formavano invece la braglia, di dimensioni variabili in relazione alla rete di scoline esistente. Una sola o più braglie definivano lo spazio coltivato della possessione ferrarese. Da ricordare infine che la pezza ferrarese era molto grande, con una larghezza di circa 50 metri e una lunghezza di 100 metri.

Quanto alle forme con cui la vitis vinifera veniva collegata all’albero il Ferrarese conosceva due modi principali: a cavalletto (o alla bolognese) e a strena. Il sistema a cavalletto era applicato di preferenza a terreni ancora non ottimali per quanto riguarda il cosiddetto franco di coltivazione, ossia la parte superficiale destinata alle piante erbacee. La striscia di terra destinata a portare gli alberi e le viti a cavalletto era larga circa 15 piedi (6 metri) ed era affiancata da due profonde scoline laterali che servivano anche la pezza. Quest’ultima era intervallata da cavedagne o capezzagne erbose per il transito dell’aratro e dei carri mentre le scoline proseguivano sottopassando la cavedagna mediante tombini a fianco delle pezze successive fino a raggiungere il capofosso. Il rapido sgrondo delle acque piovane era qui essenziale anche per la sopravvivenza delle viti.

Il sistema ferrarese a strena trovava spazio in migliori condizioni di franco di coltivazione e di permeabilità dei suoli. La strena occupava così una striscia più ridotta di circa 6 piedi (2,50 metri) di larghezza, eliminando anche una delle due scoline laterali del sistema a cavalletto. Restavano anche in questo sistema le funzioni di sgrondo delle acque svolte dalle cavedagne.

Si può comprendere come anche la sistemazione dei campi nelle campagne ferraresi dell’Ottocento finisse per unire ed intrecciare inscindibilmente tra loro la produzione di cereali (grano, mais) di legumi e piante industriali (canapa, poi bietola), alla produzione del vino come bevanda e alimento primario, all’allevamento del bestiame da lavoro e alle esigenze energetiche della famiglia contadina.

Le tecniche di vinificazione domestica erano abbastanza primitive, rivolte a sfruttare fino all’ultimo chicco l’uva prodotta. La descrizione delle operazioni di vinificazione che ci fornisce nel tardo Settecento l’abate Vincenzo Chendi è esemplare in proposito. Trascorsi 8 giorni dall’inizio della fermentazione (bollitura), il nono giorno il vino veniva travasato dai tinazzi di pigiatura nelle botti. Nei tinazzi si versavano poi alcuni mastelli di acqua per ottenere il mezzo vino. Una volta spillato questo, ulteriori aggiunte di acqua davano il secondo ed anche terzo bollito, bevanda di pronto consumo ma di poca sostanza. «Questi bolliti buoni – nota il Chendi – serbansi ad uso della famiglia, o pure si vendono, o si mescolano bevendo nel Pillone o Pistone, o Fiasco, e danno la spinta ad un giorno di più per avere sempre più vino schietto da esitare». Anche il vino ferrarese aveva dunque, almeno in parte, una destinazione per il mercato. Agricoltori, coloni e salariati avevano ogni giorno sul loro desco soprattutto quel vino bollito, che di vino aveva probabilmente solo il colore ceduto dalle graspe.

FC, 2012

Bibliografia

Domenico Vincenzo Chendi, L’agricoltor ferrarese in dodici mesi secondo l’anno diviso a comodo di chi esercita l’agricoltura, In Ferrara, nella Stamperia Camerale, 1775; Michele Cariani, L’agricoltura ferrarese in pratica, ovvero Guida per dirigere ed eseguire i lavori campestri (…) opera di un vecchio agricoltore ferrarese, Ferrara, Taddei, s.d.; Giuseppe Ragazzi, Sistemazione ferrarese delle campagne “abbragliate”, Ferrara, SATE, 1942. Franco Cazzola, Disboscamento e riforestazione «ordinata» nella pianura del Po: la piantata di alberi nell’economia agraria padana, secoli XV-XIX, «Storia urbana», n. 76-77, 1996, pp. 35-64; Marcello Bertelli, L’Uva d’Oro. La vite e il vino nella storia e nella letteratura ferrarese, Ferrara, Cartografica, 2001.

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