Agricoltura

Pietro Niccolini, La questione agraria nella provincia di Ferrara, Ferrara, Bresciani 1907, copertina Pietro Niccolini, La questione agraria nella provincia di Ferrara, Ferrara, Bresciani 1907, copertina ISCoFe

L’agricoltura ferrarese dell’Ottocento rientra tra i sistemi agricoli a base organica, ossia funzionanti prevalentemente ad energia primaria (sole) e a ciclo chiuso. L’unità principale della produzione, l’azienda agricola, usa infatti quasi esclusivamente energia prodotta dalla famiglia contadina e dagli animali impiegati nell’aratura e nei trasporti. Questo vale anche per tutto quanto può servire da concime per la riproduzione della fertilità del suolo. Solo dopo la metà del XIX e nei primi anni del XX secolo le macchine mosse dal vapore e i primi motori a combustione interna cominceranno a sostituire uomini e animali in alcune operazioni agricole maggiormente faticose: la trebbiatura dei cereali, l’aratura dei suoli più tenaci, la falciatura dei foraggi, il sollevamento dell’acqua dai bassifondi a scopo di bonifica. Si diffonderà anche rapidamente l’uso di concimi chimici prodotti da fabbriche o comunque provenienti dall’esterno dell’azienda agricola. L’agricoltura delle “terre nuove” create dalla bonifica a partire dal 1870 nel Ferrarese orientale comincerà a sconvolgere la struttura sociale dell’agricoltura concentrando sulle terre prosciugate con le macchine idrovore una massa crescente di lavoratori avventizi e giornalieri. Aziende agricole con centinaia e migliaia di ettari diventeranno alle soglie del XX secolo protagoniste assolute della vita economica, creando un conflitto sociale sempre più acuto tra un capitalismo agrario e bancario e il lavoro precario di giornalieri e braccianti, nuova classe sociale unita dalla ricerca quotidiana e disperata di occupazione. La cerealicoltura praticata su queste terre nude di case, di alberi e viti, create in breve tempo dalla bonifica sarà infatti all’origine della forte disoccupazione stagionale dei lavoratori e dei gravi problemi sociali che investiranno le campagne ferraresi nel Novecento.

Volgeremo perciò lo sguardo soprattutto sull’agricoltura “tradizionale”, che mantiene le sue caratteristiche principali fino alla metà del Novecento. Essa veniva praticata su quelle che i ferraresi chiamano le “terre vecchie”, ovvero sui terreni di più antica coltura, a giacitura più elevata e con caratteristiche del suolo migliori (terre di medio impasto). Al suo centro vi era la “possessione”, cioè quella unità produttiva costituita da un complesso di appezzamenti di terra, di edifici di abitazione e di servizio (stalle, pollai, porcili, forno, pozzo, tettoie ecc.), di dotazioni tecniche e strumentali, di forze umane ed animali.

Questo genere di azienda agricola svolgeva funzioni di produzione, di trasformazione e di consumo molto più ampie e diversificate di quanto non avvenga ai nostri giorni. Basterà considerare la massa di oggetti che componevano la dotazione media di una “boaria” ferrarese, che rappresentava l’unità aziendale di base delle nostre campagne, detta localmente versuro. Nell’ambito dell’azienda e della famiglia colonica erano svolte anche lavorazioni che oggi consideriamo esclusivamente extra-agricole o ricadenti nell’ambito di attività specializzate: l’allevamento del baco da seta, delle api, delle pecore, la lavorazione domestica del lino e della canapa, la produzione e cottura del pane, la fabbricazione dei salumi e degli insaccati, quella di burro, formaggi e ricotte, la vinificazione e la conservazione del vino prodotto sul podere.

La relativa autosufficienza dell’azienda agricola tradizionale, pur nel quadro di crescenti e sempre più strette relazioni con il mercato, era anche il prodotto di un preciso equilibrio dei rapporti agronomici e delle singole funzioni fra di loro. Nel corso dell’Ottocento questo equilibrio appare consolidato e assume le caratteristiche di un vero e proprio modello economico-agrario.

Si considerino, ad esempio, le stesse dimensioni fisiche del versuro, che, come si è detto, è l’unità agronomica di base tipica del Ferrarese, con una superficie compresa fra i venticinque e i trentadue ettari. Questa singolare misura agraria nasce, al pari di molte altre (biolca, jugero, ecc.) come effetto di un rapporto tecnico abbastanza rigidamente determinato fra la natura prevalentemente tenace dei suoli del Ferrarese e la dimensione del tiro animale dell’aratro (ferr. varsùr) necessario per eseguirne l’aratura in tempi debiti. Il limite tecnologico che deriva dall’uso degli animali come fondamentale energia motrice e la necessità di utilizzare per l’aratura un tiro molto potente impongono al podere la dotazione di una vasta base foraggera per il nutrimento degli animali della stalla e conseguenti dimensioni della “pezza”, cioè dei campi arabili, dei fienili e pagliai, delle stalle. Per questo motivo la superficie agraria utilizzata tende a ruotare attorno ad una misura ottimale di venticinque-trenta ettari.

L’agricoltura ferrarese, dal Rinascimento in avanti, appare strutturata, quanto a dimensioni poderali, attorno ad un elemento centrale: la “seminatura” di frumento. Al frumento è riservata almeno metà della superficie dell’arativo (avanzone), avvicendandolo con cereali inferiori (segale, orzo, avena) e con gli altri “marzatelli” rappresentati da leguminose (fave, ceci, fagioli, lenti, ecc.) e altre colture primaverili, come il lino e il sorgo (melica). Una parte dell’arativo era poi lasciata a riposo col sistema del maggese lavorato (terre “manzatiche”). Tra campo e campo di arativo il sistema prevedeva la presenza di spazi erbosi (strene) su cui erano impiantati filari di alberi (campagne abbragliate). Ad essi erano maritate le viti in varie fogge (a festone, a cavalletto, ecc.). L’alberatura dei campi, nelle varie forme assunte dalla piantata padana, oltre a fornire sostegno vivo alle viti, assicurava nei mesi estivi una disponibilità di foraggio supplementare, proprio mentre gli erbai riducevano la loro forza vegetativa. Vaste superfici a prato e a pascolo completavano la dotazione fondiaria della possessione ferrarese. Per larga parte dell’Ottocento questa rimase la dimensione agronomica e tecnica dominante sulle terre vecchie.

L’agricoltura ferrarese, tradizionalmente vocata alla produzione del frumento, conosce però tra Seicento e prima metà dell’Ottocento, due importanti novità: l’ingresso precoce (fine secolo XVI) della coltura del mais (granoturco, o frumentone), e la formidabile espansione della coltivazione della canapa, fino al punto che la provincia di Ferrara sopravanza in quantità prodotta anche la vicina Bologna da cui era partita la coltivazione. Alla fine dell’Ottocento giungerà infine la barbabietola da zucchero.

Gli agronomi ferraresi dell’Ottocento descrivono molto chiaramente le dotazioni ormai tipiche del versuro ferrarese in termini di forza-lavoro e di forza animale. Per quanto riguarda quest’ultima, la tradizione che ci appare consolidata nelle opere di Andrea Casazza e di don Michele Cariani si fonda sulla regola della “scala di sedici bovini” costituita da dieci animali tiratori accoppiati al giogo in ordine decrescente di età, e dalla “scorta” costituita da due vacche fattrici, due vitelli lattanti e due vitelli di un anno o anguanini.

Anche la forza-lavoro umana, necessaria alla conduzione di un versuro a proprie mani, cioè in economia da parte del proprietario o conduttore con il patto colonico, non scritto, detto di boarìa, rimane predeterminata in modo tendenzialmente rigido. Gli agronomi ferraresi tendono a stabilire quale sia la “soglia” minima di unità lavorative familiari da impiegare nei lavori campestri e nella cura della stalla durante il corso dell’annata agraria partendo dal presupposto, implicito o esplicito, che minimo debba essere il ricorso a manodopera avventizia e giornaliera, la cui retribuzione resta a carico del proprietario. Il lavoro avventizio o giornaliero di braccianti e castaldi, necessario nei momenti di punta del lavoro agricolo o per le operazioni più faticose legate alla canapa, è presente in varia misura ai margini (braccianti) o nell’ambito dell’azienda agricola (castaldi), spesso remunerato con forme di partecipazione al raccolto.

Nel podere ideale di Andrea Casazza, composto da venticinque ettari di seminativo e da cinque ettari di prato, la forza di lavoro ottimale deve essere fornita da tre uomini, uno dei quali con il compito di boaro e due con la mansione di bragliani, cioè addetti ai lavori campestri. Delle tre donne necessarie alla vita produttiva della famiglia colonica, una resta addetta ai lavori della casa mentre le altre due devono aiutare in campagna. È ritenuta infine necessaria la presenza di due ragazzi, dei quali uno deve assolvere alla funzione di boarolo addetto alla stalla e l’altro di custode del bestiame al pascolo e in particolare dei vitelli e delle vacche da latte (vaccarino). Anche secondo don Michele Cariani la possessione ferrarese esige almeno sette persone attive oltre ai ragazzi e ai bambini. Per il governo della stalla si dovrebbe poter contare, infatti, su almeno due uomini e un giovanetto.

FC, 2011

Bibliografia

Don Michele Cariani, L’agricoltura ferrarese in pratica, ovvero guida per dirigere ed eseguire i lavori campestri secondo le osservazioni ed esperienze più accurate e per ottenere i più belli ed abbondanti prodotti, opera di un vecchio agricoltore ferrarese, In Ferrara, per A. Taddei e figli tipografi editori, s.d.; Andrea Casazza, Stato agrario economico del Ferrarese, Ferrara, Domenico Taddei, 1845; Franco Cazzola, L’agricoltura ferrarese del passato. Profili strutturali e linee evolutive, in La terra vecchia. Contributi per una storia del mondo agricolo ferrarese, Atti degli incontri di studio, a cura di Violetta Ferioli e Roberto Roda, Firenze, La Casa Usher, 1989, pp. 11-20; Giuseppe Ragazzi, Sistemazione ferrarese delle campagne «abbragliate», edito dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura di Ferrara pei tipi della SATE, Ferrara, 1942; Mario Zucchini, Storia del versuro ferrarese, in Georgici ferraresi del passato, a cura dell’Associazione laureati in scienze agrarie Ferrara, Bologna, Tamari, 1968, pp. 15-31.

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